sabato 30 novembre 2013

Atto primo.

   Godette il silenzio nel tempo in cui una piuma d'oca di un giubbottino si posava sul palco di legno, immobile nel suo inchino, mentre una goccia di sudore scivolava sul dorso del suo naso sopra il cerone quasi andato. Aspettava, gli applausi o i fischi, avrebbe accolto l'una e l'altra cosa.

   Di applausi ne aveva sempre ricevuti, per quei pochi versi storti sputati da dietro i suoi denti felini, talvolta più lunghi e talvolta più brevi, fini a loro stessi, o se non altro fini alle risate del signor pubblico. Attese, attese ancora, e piano qualche applauso, qualche complimento timido veniva fuori.

   Sapeva di averne altri, di avere altrettanti fischi soffocati in un boccone di pop corn o in un tiro di marlboro light, insulti a non finire e quasi tutti mai detti. Li attendeva con altrettanto entusiasmo, ma era contento anche così.

    "Signori, lo spettacolo è finito.", disse rompendo ogni indugio. "Avrò da fare un po', non prendetevela con me, entusiasti e detrattori. Il tendone chiuderà, fino a data da destinarsi, non ci saranno altri spettacoli. Forse un giorno riaprirà, o forse resterà chiuso per sempre. Ma quello che avete goduto o sofferto finora, quello di cui ridete o deridete, quello che avete detestato o amato, sappiate che non è stato finto. Era tutto reale, per filo e per segno. Quello che mi auguro è solo di avervi fatto passare un lieto quarto d'ora. A presto, miei signori."


    Tirò la cordicella e calò il sipario ammuffito. Il volto raggrinzito da una specie di sorriso, sporco di sudore, trucco e qualche lacrima. C'è chi giura di averlo sentito piangere, chi di averlo sentito canticchiare qualche canzone che sapeva solo lui. Eppure il suo tendone restò lì intatto, nessuno lo toccò, nessuno lo aprì. Sull'ingresso il cartello storto e graffiato dal vento, "S ase a    s    re lica".

mercoledì 28 agosto 2013

Auguri.

       Il compleanno lo aspetto con ansia. I genitori fanno i regali, vengono i parenti e fanno i regali, poi c'è la festa, gli amichetti, la torta, la mamma che taglia la torta e ti fa i baffi con la panna visto che "ti stai facendo vecchio". La cosa bella del compleanno è che, per un giorno solo, puoi esser certo che a tutto il mondo importa di te. Prendo il telefono con le due manine mentre una voce gracchiante mi riveste d'oro le orecchie, sento che in quell'istante a lui di me importa davvero, e faccio come mi insegna la mamma, dico grazie e rido. Un anno in più, adesso posso dire di averne uno in più. Finisce la giornata e mi programmo già per l'anno prossimo, come se venisse il giorno dopo.

       Il mio entusiasmo era anche più grande rispetto a quello degli altri, anche perchè io ero più piccolo di un anno rispetto ai miei compagni e ai miei amici, per cui ogni volta non vedevo l'ora di raggiungerli. Per qualche mese, così, avrebbero potuto smettere di farmi pesare, anche bonariamente, il fatto di essere più piccolo. Ad ogni modo, pure se riuscivo a farlo notare, ci doveva sempre essere qualcuno che diceva "Si, ma anche se hai la stessa età nostra sei comunque piccolo". Quello era sempre il momento peggiore. Non era però sufficiente a smontare la bellezza di poter dire di avere un anno in più, di aver raggiunto il livello successivo, di aver lasciato gli sfigati del piano di sotto. Tipo il soldato semplice che diventa tenente.

       Anno dopo anno, si aspettano telefonate e messaggi nel giorno così magico. Poi arriva il primo compleanno da grande, il primo compleanno in cui si impara la regola fondamentale dei compleanni: ci si ricorda solo dei compleanni dei propri amici. Il vero amico ricorda il tuo compleanno, gli altri no. Il primo compleanno in cui si aspetta davvero solo una telefonata e in cui quella telefonata non arriva. Innocentemente, ci si chiede cosa accade, e quando si fanno le nove di sera e il dubbio fa salire in gola anche la torta di compleanno, lo si chiede alla mamma. E la mamma lo spiega, naturalmente, e per la prima volta si va a dormire con il muso triste nel giorno del proprio compleanno. L'amico che credevi tuo amico si è dimenticato di te.

      Un ragazzetto americano, un giorno, scoprì questa brutta legge della natura. Gli andò proprio male il compleanno, gli amichetti del cuore si scordarono tutti di lui. Si dovette accontentare di una festa improvvisata a casa, con solo i parenti e la crostata alle pere anch'essa improvvisata dalla mamma che non sapeva cucinare. La festa fu orribile, il più alto livello di divertimento si raggiunse con il gioco del telefono, a cui lo zio barava cambiando le parole, mentre le zie chiedevano sempre notizie della fidanzata al festeggiato, la quale lo aveva lasciato un paio di giorni prima per mettersi con uno dei suoi amici del cuore, e la frolla della crostata di pere sapeva insopportabilmente di margarina.

     Non aveva neanche bisogno di chiedere nulla alla mamma, ingurgitò le ultime briciole di crostata e la ringraziò capendo i suoi sforzi, diede un bacio anche a papà, poi andò a letto e pianse tutta la notte. Un solo pensiero girava nella sua testa: "Mai più. Mai più.". Quel ragazzetto si fece grande, poi inventò una sito strano con la scusa di trovare il modo di mettersi in contatto con i propri amici via internet. In realtà aveva solo intenzione di interrompere quella stupida pratica e rendere impossibile il fatto di dimenticarsi il compleanno di qualcuno. Adesso quel sito ha anche quotazioni in borsa, e la piaga dell'amico che si dimentica i compleanni non esiste più. Ora i compleanni non sono più gli stessi. O meglio, sono sempre gli stessi, ma adesso la percentuale di messaggi di auguri è salita per ciascuno di noi. Anche per lui, che adesso ha tanti soldi che degli auguri non se ne frega più niente.

      Ci ha influenzati tanto quella strana invenzione, quello strano sito che ogni giorno ti dice di chi è il compleanno. La seconda regola del compleanno è che, se sai che oggi è il compleanno di qualcuno, è educato fare gli auguri. E' un meccanismo psicologico che può scatenare reazioni diverse.

      Guarda in alto a destra e legge il nome di fianco al tortino stilizzato con tanto di candelina sopra. Con lui non ha grandi rapporti, non lo vede da un bel pezzo. Poi si ricorda di quella volta che stavano in giro, lui ha fatto quella battutina, si, è un tipo divertente, perchè non fargli gli auguri? Educatamente, consuma parte della sua articolazione del polso per cliccare lì sopra, sorride e scrive: "Auguri! :)"

     E questa? Questa non lo conosco manco, non so nemmeno chi sia. Ha le foto strane, foto di animali, foto di gruppo, qualche foto sua, no, direi che non la conosco. Però, magari attacca bottone, però. Non mi costa niente. "Auguri! :)"

     Poi c'è lei che frequenta il festeggiato in questione e, sentendosi più in confidenza, si sente di fare quella specie di passo che oltrepassa il distacco dei primi due tipi, si sente dentro quel mistico cerchio delle persone che se incontra per strada saluta senza aspettare di essere salutato. La licenza del cuoricino e del bacino. "Auguri! <3 :*"

     Poi ci sono gli assurdi. Quelli che si svegliano male, quelli che stamattina il caffè si è bruciato, quelli che ieri l'Inter ha vinto, quelli che ieri l'Inter ha perso, quelli che guardano quella specie di annuncio, leggono il nome e pensano "Povera famiglia". Poi mettono due mi piace a due cazzate degli amici, poi però iniziano a sentirsi in colpa, e masticati dal rimorso arrancano le mani sulla tastiera vomitando un messaggio di augurio senza neanche sprecarsi in punteggiatura, nè in lettere maiuscole. Un messaggio da cui traspare tutto il loro odio verso chi ha deciso di nascere qualche anno fa proprio quel dannato giorno. Un messaggio che sa di sudore. "auguri".

      Giusto il tempo di rispondere, chiudo il sito e mi metto a studiare, che stasera mi hanno pure invitato a mangiare una pizza, per stare insieme il giorno del mio compleanno. E' una cosa che fa piacere, fa sempre piacere essere ricordati in un giorno così. Guardo il cellulare, rispondo anche agli SMS, più o meno aspettati. Poi arriva quello che non ti aspetti, ma che in fondo non avresti voluto. Gli auguri di quelli che erano spariti e poi decidono di ritornare improvvisamente il giorno del tuo compleanno. Perchè hanno deciso di pensarti proprio quel giorno, tipo quelli che vanno a messa solo a Natale per potersi dichiarare cattolici praticanti. E ringrazi, giustamente, mentre cercano di intentare discorsi sul nulla, su cui cali un velo pietoso prima di tirare lo sciacquone.

      Mi vesto ed entro in macchina, ancora innervosito da quella irruzione senza senso. Arrivo e trovo più di qualcuno a farmi una bella sorpresa, al mare. Di quelle che non ti aspetti, che non sai cosa dire e ti lasciano tutta la sera euforico. Una pizza in compagnia, una fetta di torta della pasticceria buona, fornita dalla mamma e dal papà che non hanno più bisogno di farmi i baffi con la panna, "non me l'aspettavo ragazzi, grazie!".

     Ed è inevitabile ricordarsi del compleanno di qualcuno, grazie a quello strano sito. Non sono mai stato uno dei soliti adolescenzioloidi nostalgici di cose che non hanno mai vissuto, ma i compleanni adesso sono diversi rispetto a quelli prima del sito in bianco e blu. Adesso non è più possibile dimenticarsi del compleanno di qualcuno, adesso se lo ricordano tutti, da quello che non se ne fotte niente di te a quello a cui, semplicemente, era sfuggito. E' bello per certi versi, ricevere tanti pensieri. Ma a volte l'occasione del compleanno è necessaria, necessaria per far capire a qualcuno che non si pensa più a lui, necessaria a fargli capire, magari, che si è pensato a lui quando si poteva anche non farlo.

     Quel segnalino in alto a destra ci costringe, invece, a pensare a chiunque. Pensare a chi non si voleva più pensare, costringere all'imbarazzo reciproco due persone che avevano chiuso i rapporti, disturbare chi non aveva mai aperto nessun rapporto, costringerlo a defecare un messaggio di auguri di cui, in fondo, poteva fare anche a meno. Non è un delitto il pensiero, ed è sempre ben accetto a chi lo sa apprezzare, diventa un delitto costringere al pensiero. Unire ciò che non è unito, cercare di dar vita a ciò che è morto o non è mai nato, come una bambina che cerca di rendere realistico un bacio tra Barbie e Ken mentre il fratellino, a distanza, riesce a vedere solo due bambole che si prendono a testate.

      Il compleanno è un giorno speciale, un giorno che tutti meritano sia speciale. Così speciale che ogni cosa dovrebbe venire da sè, spontanea, come una mela dall'albero.

      Come se scendessi dalla macchina e trovassi i tuoi amici a farti una sorpresa.

lunedì 22 luglio 2013

Gamba.

     Un giorno mi svegliai e non avevo più la gamba. Io ci sono affezionato, alla mia gamba, la avevo sin da piccolo, me lo ricordo. Uno si chiede, qualche volta, come fa ad andare in giro senza una gamba. Io non me l'ero mai chiesto, ma sono stato costretto ad impararlo presto. Indossai la scarpa e iniziai a saltare sulla gamba, giusto per abituarmi alla cosa. In fondo non era tanto male, andare in giro su una gamba sola. A destra l'arto era bello completo, con i soliti peli e il solito brutto piede, a sinistra c'era solo un moncherino liscio e tondeggiante.

     Saltellai in bagno e mi buttai sul lavandino freddo. Sputai un po' d'aria sul mio viso stanco e sudato che mi guardava dallo specchio. Ansimai guardando il sudore colare dalla fronte e dal naso, ringraziando il cielo che sia estate. Con non poca fatica, ficcai la testa sotto il rubinetto congelato e mi ritrovai in un istante fresco come una rosa. Quasi soffocai a lavarmi i denti quando mi scivolò lo spazzolino in gola dopo aver perso l'equilibrio, ma fortunatamente sono ancora vivo per raccontarlo.

     Mi aggrappai al bancone del bar come un ubriaco, in realtà avevo solo chiesto un cappuccino e un cornetto. Mangiai e bevvi con avidità, il giorno in cui persi la gamba, senza come e senza perchè. Feci gli scalini uno ad uno fino al terzo piano, rischiandomi di spaccarmi la testa, i denti, e chissà cos'altro ancora. Arrivai in casa, mi buttai sul letto ed iniziai a piangere. La mia gamba, chissà dov'era, ormai. La notte me l'aveva portata via, ed io non avevo fatto niente per perdere la mia gamba, non ho sentito neanche dolore, mi sono svegliato e la mia gamba non c'era più.

     "Ma ora come farò senza la mia gamba? Dove andrò mai? Come faccio a portare le valigie? Come faccio a diventare un medico se non ho una gamba?" pensai affranto, poi suonò il campanello. Io e il mio collega ci mettemmo a studiare senza troppa voglia come fa una palletta di cellule deformi a diventare in 9 mesi un essere umano, passando di mese in mese a sembrare prima un balenottero, poi un tritone e poi il coniglio del Nesquik. Quantomeno si può studiare senza una gamba, puoi fare finta di niente a star seduto, è come se ce l'avessi, fa lo stesso.

     Sono così i giorni dopo la sessione estiva. Uno li aspetta con ansia, poi arrivano e non ha un cazzo da fare. Passai le giornate diviso tra due piacevoli compagnie, cercando di riuscire a tirarmi su, anche se da solo riuscivo benissimo a camminare, quantomeno in compagnia riuscivo a dimenticare la mia inspiegabile menomazione. Mi trascinavo faticosamente dovunque andassi, appesantito dalla mancanza della gamba, il cui peso sembrava semplicemente spostato dalla fine del corpo ai confini del petto. Non è poca l'ansia di non avere una gamba, posso garantirlo. Ti senti più pesante di quando ce l'avevi, perchè tutto il peso del corpo è affidato all'altra gamba.

      Sgobbai sul biliardino colando così tanto sudore quanto mai mi era successo. Un'ottima cura alle gambe mancanti. Soprattutto se vinci spesso. Mai stato competitivo, ma vincere partite a biliardino è una bella soddisfazione, ovviamente sempre restando nel limite del contegno e nel saper accettare le sconfitte. Cercai una partita dietro l'altra, perchè nelle pause ricominciavo a sentire quel vuoto a sinistra, la gamba che mancava, e mi veniva giù un bel magone.
    
      Lo davo a nascondere bene, pareva che nessuno si fosse accorto del mio ingombrante problema. Questo mi fece molto piacere, non mi piace addossare i miei problemi alle persone, ma non cambiava il fatto che mi mancasse tanto la mia gamba. Quando mi trovavo da solo trattenevo le lacrime, non piansi molto se non quella mattina. Accettai immediatamente la cosa, non cercai nessun modo di sistemare la cosa, mi abituai silenziosamente alla mia strana condizione. Dopotutto, avrei potuto qualcosa se la colpa fosse stata mia, non potevo neanche prendermela con me stesso. Non mi fu difficile neanche preparare la valigia, stipare tutti i libri senza nessun problema.

      "Si vede così tanto il fatto che mi manca una gamba?" "Ma cosa stai dicendo? La tua gamba è qui!". Rimasi interdetto e piuttosto confuso. Io non avevo più la gamba, e questo lo sapevo da me, ma a quanto pare non era un dettaglio così immediato. Passai la mano attraverso lo spazio della gamba. "Vedi?" "Ma che cosa dici?" Portò la mano sullo spazio della gamba e la appoggiò su qualcosa che non riuscivo a vedere.

     O mi mancava una gamba o qualche rotella. E se la prima era una novità, sulla seconda da un bel pezzo non c'erano tanti dubbi. Saltellai a casa, mi addormentai piuttosto in fretta, ed eccola lì la mia gamba. Come prima, come nuova. La punzecchiai per vedere se mi stavo ingannando, ed era lì, la mia gamba, come prima. Come se non fosse mai andata via.

     Andai a far colazione con una corsetta, poi presi le valigie e andai fino all'autobus. Non smettevo di toccare quella gamba, temendo andasse via ancora una volta. Presi tranquillamente la metro, non smettendo di pensare allo strano episodio degli ultimi giorni, a metà tra il confuso e lo spaventato.

      Presi posto nell'autobus per andare a casa e mi guardai intorno. Davanti a me, un uomo mosca parlava al telefono. "No, no amore mio...ma porca zzozza, tutte le vorte che me ne devo annà de qquà, mamma mia..." tirò su col naso e continuò "ma tanto mo vengo, amore mio. Paraculetta mia. Eh, no, de certe cose io nun me stanco mai. Che se me stancavo de certe cose, eheheh, c'èra d'ammazzàsse!". Chiuse il telefono e fece un'altra chiamata. "Pupetta mia...papà sta a venì dda tè! 'O sai che mo che vegno te magno de bbaci? T'ho comprato 'a torta cogli smàrtis, quella che tte piace tanto, eh? Paraculetta mia...mo che vengo che, me lo dai un bacetto? Un bacetto ar papà tuo?". Finì la sua telefonata, di cui tutti furono partecipi grazie alla sua voce squillante, e iniziò a piangere dietro i suoi occhiali da sole.

      Dall'altra parte, una mamma teneva la figlia che si gettava contro il vetro del finestrino, piagnucolando e dicendo "mamma, mamma? Perchè papà non viene con noi?" "Amore mio, papà deve stare qui..." "Si, ma a me papà manca....mi manca tanto papà..." "No, amore mio, no, non piangere tesoro mio...". L'uomo mosca e la bambina si dividevano il piano del pullman tra i pianti. Il pianto della bambina sapeva di paura, di angoscia, di terrore, ovattato dal seno della mamma.

      L'uomo mosca dietro i suoi occhiali nascondeva la disperazione di un uomo diviso tra due città, tra due donne e tre figlie, come ci tenne a raccontare dopo poco. Glissai sui cazzi suoi, non essendo un gran pettegolo, e mi diedi qualche pizzicotto alla gamba ascoltando del sano jazz e leggendo Dostoevskij.

      E quel giorno mi scontrai con il volto di quella verità, sempre nascosta, sempre in sottofondo, che improvvisamente aveva scelto di venir fuori. Mise a tacere tutte le altre certezze, prepotentemente gridò il suo ruolo dai suoi occhi. Ed ogni singhiozzo sembrava uscito da ferite aperte e mai richiuse, ogni dolore alla stessa causa, alla stessa origine. La verità gridava che nulla è eterno. Nulla è certo, nulla si può promettere. Tutto è destinato a rompersi, anche il più forte dei legami, non è fatto per durare per sempre.

      Negli occhi di un uomo che piange, un qualunque uomo che piange, la prima cosa che si può leggere è "Io non me lo meritavo". Nessuno in fondo merita di piangere, ma tant'è, tant'è che ognuna delle nostre certezze non durerà tanto a lungo come speriamo. E finirà per colpa mia, oppure per colpa sua, oppure non sarà colpa di nessuno, fatto sta che finirà. E l'inferno lo sentiamo in mezzo a noi, negli occhi della gente che sa questo e rifiuta di accettarlo, vive nel dolore di qualcosa che credeva eterno e in realtà non lo era. Si crede zoppa, in realtà non lo è mai stata.

     Poche sono le certezze che abbiamo, ma più di tutte, l'unica a consolarci, siamo noi stessi. Ci ritroveremo sempre, noi, da soli, grazie ad un'alba vista per caso, un libro o un Dio, alla fine ritroviamo sempre quello che ci siamo dimenticati, rincorrendo gli altri ci siamo dimenticati di quanto siamo apposto già da noi stessi. Perchè gli altri potranno toglierci tutto, ma non noi stessi. Sarà un'illusione quella di essere a pezzi, il tempo che ci serve è quello sufficiente a capire che siamo tutti interi, pronti a partire, ad alzarci sulle nostre stesse gambe, finchè il fiato ce lo permetterà. E neanche quello sarà eterno, il nostro fiato, ma finchè c'è è l'unica certezza che abbiamo.

     E anche se fosse, si può vivere anche senza una gamba. Io lo posso garantire.

martedì 16 luglio 2013

Giallo.

      Signori, signori! Se sono qui oggi è per presentare un'idea fantastica. Qui ci vuole un po' di modernità. Queste case dello studente potevano andar bene negli anni di piombo, questi palazzoni strani, che i bambini quando passeggiano con i loro genitori non sanno neanche che cosa ci fanno dentro (e figurarsi i genitori come dovrebbero fare a rispondere ai loro dubbi), questi edifici stantii potevano andar bene tanti anni fa! Ma ora, ora i giovani cercano qualcosa di nuovo! I giovani adorano l'estero, adorano l'esotico, quello che vedono nei telefilm! E diamoglielo, per Diana!

      Il cortile strano di mattonato casalingo da esterni circonda i blocchetti stile lego immersi in chiazze di verde versate a caso da una brocca piena di acqua e sciroppo alla menta in un giorno d'estate. Ogni tanto qualche panchina. Gli alberi gridano insensatezza, prelevati da ogni posto d'Italia e costretti al reciproco imbarazzo ed un tabellone giallo sbiadito da qualche estate reclama l'esistenza di una specie di ecosistema qui dentro. Caro signor architetto designer di esterni (e magari pure di interni), cosa ti ha fatto pensare che questo poteva in qualche lontano modo ricordarmi un telefilm americano?

      I ragazzi arrivano a trovarsi nello stesso imbarazzo tra una quercia del Piemonte e un albero strano del Sannio, che potranno avere senz'altro molto da dirsi, ma insieme al cespuglio delle Marche, al roseto della Campania e alla cicas di importazione finiranno per fare piazza. E alla fine il telefilm americano ce l'avevamo già nei paesini qualunque di ogni posto qualunque, solo che qui a far piazza ci sono persone da ogni angolo.

      Un paio fornica nella penombra e cammino in compagnia. I fari intorno gridano di giallo coni di sentiero morbidamente asfaltato, a dar tregua al tremendo mattonato rossastro. Finestre gialle di vetri gialli con tende gialle attendono verdetti alla luce, mangiando angoli alla notte. Si parla e ci si siede. Le infradito scricchiolano sulla ghiaia irrigata per sbaglio, in lontananza il deposito dei bus languisce faretti multicolore di giallo. La luna al tramonto si inzuppa di follia sanguigna, e gli occhi bianchi della notte non vogliono farsi vedere.

      Il bello è che non c'è molta gente. Non c'è nessuno, ed ogni eventuale gruppo si tiene a debita distanza dagli altri. Ogni palazzetto urla di giallo dalla bocca, e i ballatoi sembrano corridoi carcerari con porte in alluminio per ogni cella. Le cavallette sferzate dal freddo gentile si trascinano in una sera troppo fredda per restare con bermuda e infradito, tra discorsi di un certo spessore. Se sei sotto esame, non hai tempo per questo. Studiare assorbe ogni cosa, anche la voglia di guardar fuori dalla finestra. Non te ne frega un granchè di niente, studi e basta, poi arriva l'ansia delle ore prima, ed è tutto in funzione di quella data.

      Cerchi di star comodo, dieci minuti alla scrivania, dieci minuti in piedi, dieci seduto all'indiana sul letto, eppure la plafoniera gialla spietata resta sempre quella. Apri la finestra, ma il Sole non è un granchè diverso. Sputa raggi gialli sul pavimento verde, senza neanche preoccuparsi dell'accostamento. Finchè anche il Sole folle e giallo sta nel cielo, finchè continua il mattino, va tutto bene. Scende il tramonto, con gli occhi cerchi di aggrapparti all'ultimo filo giallo del pallone di fuoco che corre via per un calcio troppo forte, ed ogni studente lo guarda e con gli occhi grida "Palla!", come se qualcuno potesse ridarglielo indietro. Ed è notte, i lampioni gridano indietro istanti di quel Sole che è andato via, reclamano alla povera notte istanti di giorno, come il pazzo che cerca di tagliare anche il piatto dopo aver finito la bistecca.

      E la follia del Sole è crudele nel giorno cruciale. Grida storie di mare, di passeggiate anni prima e di amori mai nati, strappa istanti al passato senza pietà, mentre il presente languisce in ogni angolo. Oggi c'è l'esame. Entra negli occhi e inietta follia, sguardi di piccoli uomini come maiali al mattatoio, i macellai calano scuri di inchiostro sulle loro giugulari, schizzi di sudore e spruzzi di fatica. E' un momento, e poi basta.

     L'atrio pullula di anime di maiali morti scannati, con numeri dallo zero al trentellòde. I macellai stanchi vanno a fare quello che fa un macellaio dopo la mattanza, e le anime vagano un po' dove gli pare.

      La sveglia suona come un amico trascurato, "ma oggi non studi?"  "E perchè?". Perchè studiare. Perchè alzarsi. Perchè esiste il mattino. Perchè. Mi alzo, e non so cosa faccio. Ieri a 48 ore studiavo, oggi faccio il bucato, lo faccio a mano per perdere tempo. Il Sole amorevole, follia è sconosciuta. Il giallo del pallone di fuoco redime le anime perdute e la plafoniera ammansisce il pigrone. Ed è lecito stare tre quarti d'ora sul cesso, è lecito tutto, non hai veramente un cazzo da fare.

      Ed è mezzogiorno, e non hai un cazzo da fare. Il Sole giallo è così dolce che alla lunga rompe i coglioni. Chiami qualcuno, state insieme, ma dopo un po' è come se aveste finito le cose da dire. State seduti, un'ombra gialla entra dalla finestra e danza immobile sul tavolo. E ora che si fa?

      Il libro è chiuso, ed aspetti la notte, aspetti la sera, perchè la sera ti ispira. Stasera non dormo, stasera faccio casino e basta. Stasera sto sveglio, stasera non c'è il Sole, basta con questo giallo, voglio il buio. Decido io dove ci sia la luce, decido io di star sveglio, di evadere dalla follia generale, che per qualche giorno non mi colpirà. Basta.

     La sera di colpo arriva, ed eccoti lì, con le infradito con il tempo che fa, con il freddo che ti passa tra i peli e le cavallette che camminano a fatica. Parli e la notte continua, la notte va avanti. Hai aspettato la fine del giorno, hai aspettato che il Sole andasse via, che ti lasciasse stare con il suo bipolarismo. Poi ci si saluta, che gli altri hanno sonno. E tu sonno non hai. Vai a letto, ti metti il computer sulle gambe ed inizi a scrivere finchè è notte. Il giallo non lo sopporti più, eppure se è solo il tuo, se è solo la tua stanza, è un giallo tranquillo, è un giallo sopportabile. Finalmente notte, finalmente scrivo, di nuovo. Finalmente la follia non mi tocca. Finalmente non sono sotto esame. Finalmente la notte è mia amica, non ho bisogno del giorno, non ho bisogno del Sole.

     Finalmente notte. Ora cosa fai?
     Oh, beh, aspetto che fa giorno.

domenica 7 luglio 2013

Fischio.

       Sono da sempre stato attento ai dettagli, di ogni cosa. Quando parlo con una persona guardo ogni cosa, con piccoli sguardi innocenti, inconsapevoli e curiosi di ciò che a qualcuno sfugge. Il neo all'angolo della fronte, l'altro immerso nei peli delle sopracciglia, il naso con dei puntini a forma di triangolino, le mani piccole, la faccia tonda come una biglia, il bottone scucito, la macchia di grasso di motorino sui pantaloni, il mento a forma di culo.

       Parlando con qualcuno osservo molte cose, e se mi sta antipatico mi piace cercare quei tratti che provano indiscutibilmente il fatto che abbia in comune il 99 per cento del suo genoma con uno scimpanzè. Mentre parla, apre ritmicamente la bocca, ragiona e emette vocalizi da quella voragine dietro i denti dalla forma strana. Senza star troppo a giudicare, mi basta aver visto un paio di tratti, ed ecco, un paio di sue fotografie mentre si trova allo stato primordiale maneggiando noci di cocco e facendo cose strane con le foglie degli alberi di banana. Il tutto si svolge in poche frazioni di secondo, impercettibilmente, con il minimo sforzo, non perdo neanche il filo del discorso. Il risultato è anche piuttosto realistico, nonchè sadicamente divertente.

      Non ho un'ottima vista, dato che ho bisogno degli occhiali, ma sicuramente ho un gran senso dell'udito. Funziona più o meno come con i dettagli visivi, io cammino, parlo, vivo, e nel frattempo molte cose mi entrano nelle orecchie. Riesco a sentire cellulari che vibrano nelle borse, orologi che ticchettano, non ho neanche bisogno di concentrarmi, è una cosa che mi risulta molto naturale. Sorprendo me stesso ogni giorno di più, qualche volta per farlo mi ci metto davvero d'impegno, ed anche questo è abbastanza divertente. E' bello poter ascoltare, fermarsi un momento, concentrarsi un po' e sentire il mondo scorrere nei piccoli suoni dimenticati dal resto del mondo. Il garage che si apre, l'uccellino che cinguetta, una risata fragorosa, una porta che sbatte, gente che grida in dialetto, Marta che saluta tutti e va a lezione.

      Uno strano fischio fisso e continuo. Sbatto la mano al muro e lascio che la luce della plafoniera mi bruci la retina. Poggio i piedi, scivolano sui granelli di polvere del pavimento che non pulisco da circa una settimana. Osservo l'ammasso granulare fluido di cose colorate pendenti, butto le mani sugli occhiali, incurante di insozzare le lenti con le dita, ed ecco la sedia girevole che non gira più per il carico di vestiti granulari fluidi. La notte chiudo gli occhi, mi dimentico del tumore che aggredisce la sedia e lo ritrovo il mattino dopo, ingiallito dalla plafoniera perentoria. Mi chiede pietà, o forse no, forse è solo questo strano fischio fisso e continuo.

      La radiosveglia infernale emette le sette di un rosso che non ho mai sopportato, mi guarda insensibile e mi giudica. Il suo colore arriva alle mie orecchie e le fa fischiare, mi fischiano le orecchie. La porta scatta morbidamente con un suono ovattato. Le radiosveglie non giudicano, le sedie girevoli non chiedono pietà, sono solo io che di colpo non ci sento più bene. Mi aggiro in bagno con la testa in una bolla d'acqua, la fiatella secca mentre tutto è ancora più vaporoso per colpa degli occhiali sporchi. Non ci sento più e la cosa non mi piace.

      Riempio lo zaino di libri, riempio la valigia di libri e di qualche vestito, agguanto la maniglia   della valigia e sbatto la porta. Il sole secco mi sputa addosso l'estate che mi rifiuto di raccogliere, striscio via con i miei bagagli pesanti cercando di raggiungere le mura di casa. Il pullman è alle 11 ed ho avuto tempo di fare ogni cosa, seguito fedelmente dal mio nuovo amico fischiante nelle orecchie. Come se non bastasse l'esame di biologia.

       Sono le 9, il sole è alto, non c'è una nuvola, la gente va al mare ed io sono stanco. Mi faccio agitare sulle strade di mollica dura dal bus che porta alla metro, il fischio balla con l'autobus, lo sopporto con le braccia incrociate sulla valigia e il mento poggiato. Dopo una ventina di minuti di capoeira, il fischio dei freni si unisce a quello delle mie orecchie. L'autobus sbuffa e vomita fuori tutti quanti, me compreso. Mi fermo un momento solo, e il fischio continua a vegliare su di me e dentro di me. Asciugo il sudore e andiamo io e lui sulle scale della metro. Sono le 9 e 30, sono nervoso e sono stanco.

      La gente parla, i rumori affollano, non sento davvero più nulla e non capisco perchè. Mi accomodo sul sedile e mi sistemo con le braccia sulla valigia. Un gruppo di anziani allegri popola il vagone. Si parlano, ed è tutto un circolare di mugugni e colpi di tosse, accompagnati nelle mie orecchie dal fischio. "Dove?" "Ba......i!" "A che si sce..e?" "Ba...rini!" "Eh?". Sempre gli stessi versi e mugugni finchè tutti non ricevettero e compresero correttamente l'informazione. Sale il nervoso, non sento niente, non che mi interessi di loro, ma ogni rumore si infila dentro le mie orecchie sature del fischio, ogni rumore sbatteva insieme a quel maledetto fischio, senza che potessi comprendere nulla.

      Un accattone con lo zaino e le scarpe rotte chiede senza troppa insistenza. Agita la mano vuota che non fa che riempirsi d'aria per tutto il percorso. Arriva dai vecchi e uno di loro dice qualcosa. Gli altri ridono. L'accattone agita la mano, agita il dito e diventa serio. -Noi...Kosovo...nazione...-, mi rifiuto di guardare la scena e mi arrendo ai suoni che non smettono di infastidirmi. -Ahahahah!- -Nonono, noi.......zione fiera.....Kosovo....memoria......storia....- qualcuno mugugna e gli altri ridono. Il vagone intero fissa la scena, e come lo stolto guardo le dita che puntano alla Luna.

      Mi abbandono al sedile e dò un senso al biglietto che ho stampato porgendolo al controllore. Siede vicino a me, il mio insistente compagno, e non mi lascia in pace. Il pullman parte, ed improvvisamente accade qualcosa che non avrei immaginato. Il fischio inizia a piacermi. Ascolto il fischio, ed il fischio è bello. E il mondo scorre, la gente davanti parla di cose strane che finalmente riesco a non sentire. Percepisco poche parole, -...stupro...galera...che si aspetta adesso che esce di prigione?-, storie curiosissime di cui improvvisamente non mi importa niente.

     Per la prima volta, non ho intenzione di ascoltare il mondo e del mondo non mi importa nulla. Il fischio è mio amico, ed è bellissimo. Mi abbandono piano alla sua compagnia, la testa piegata, mentre il mondo cerca disperatamente di entrare dalle mie orecchie. Chiudo gli occhi e ascolto il canto insensato del mio nuovo amico, che sublimamente respinge tutto ciò che mi circonda. Storie bellissime, di un uomo che fischia, cammina e fischia. Arrivo in piazza e trovo una mia amica. Amica mia, come stai? Male, sto male, mi hanno trovato il gene della calvizie! Calvizie? Si, calvizie! Guarda come sono calva! Cavolo, meglio andar via, inizia a piovere.

     Un goccio di saliva piove dalle mie labbra sulla spalla e il Vesuvio a sinistra oltre il vetro. La faccia intorpidita, eppure qualcosa manca. Le signore davanti parlano dell'albergo con la piscina, e dietro di me un ragazzo parla della macchina che si è sfasciata. Dove sei, amico mio? -Ma cosa...?-. Ecco. Il mio nuovo amico. Il fischio è andato via, per lasciarmi in compagnia del mondo e della mia voce, chiara e tonda, finalmente ci sento bene.

     Stranamente, inizio ad odiare il mio udito. Sto sentendo di nuovo, sto sentendo tutto. Sto sentendo tutti i cazzi della signora davanti, sto sentendo il rombo del motore, il vecchio che tossisce, quello di dietro che ascolta musica house. Il mondo aveva ucciso il mio amico, ed aveva ripreso possesso del mio orecchio, lo aveva fatto mentre dormivo, in un fiume di cose di cui non mi importa nulla. 

     E' bello ascoltare, ma ogni tanto è bello anche smettere di farlo. E' bello riprendere se stessi, non ascoltare nulla se non se stessi. Abbiamo paura di questi momenti, dei momenti in cui il mondo sembra rifiutarci, dell'orrore dei momenti di solitudine. Ci aggrappiamo a qualunque appiglio pur di non sentirci soli, pur di non restare da soli. Siamo disposti a ridere con gente che non sopportiamo, a buttarci in fiumi di alcool, in posti in cui la musica è così alta da sovrastare ogni cosa.

     Ed ogni tanto accade, qualcosa dentro di noi cerca di riprendere la nostra attenzione. Il nostro io, che trattiamo così male, di cui detestiamo la compagnia, ci chiude in casa e ci costringe a stare con lui. Ma in fondo, non è male restare con se stessi. Il giorno dopo ho staccato internet. Non volevo sentire più nessuno. Ho chiuso Facebook, non ho più aperto Whatsapp, ho preso un periodo solo e soltanto per me.

     Stanco dei valzer di proteine, mi sono steso sul letto e ho cercato il mio amico. Il fischio, era tornato. Ed io l'ho abbracciato.

sabato 11 maggio 2013

Ritorno.


      Stava comodo steso lì, bello al coperto da tutto, in silenzio ad aspettare qualcosa. Il freddo era steso sul suo viso, mentre un profumo di fiori e incenso entrava prepotentemente nel suo naso. Aveva dormito benissimo, era perfettamente riposato e si sentiva in grado di fare qualunque cosa. Guardava il soffitto, indeciso se alzarsi in quel momento o un po’ più tardi, aspettare ancora e godersi il suo essere immobile. Si alza sui gomiti per superare i bordi del letto e davanti a sé ritrova una croce di bronzo su un piccolo altare.

      Le parole crociate sono un ottimo passatempo, soprattutto se il proprio dovere non è caratterizzato da una grande mobilità. Non succede nulla di eccezionale, bisogna solo aprire i cancelli, suonare la sirena verso le sette di sera, chiudere e andare a casa a mangiare pane e pomodoro. Non va via nessuno, al limite qualcuno entra, ma nessuno ha cattive intenzioni. Un lavoro di attesa, una passeggiata di tanto in tanto, niente di straordinario. Aspettava, tra il 15 verticale e il rebus a fine numero, aspettava che fosse l’ora.

     Qualcuno bussa timidamente alla porta. Sbatte l’enigmistica sul tavolo mentre Carlo Conti elimina un concorrente e va ad aprire. Non ha parole, né gesti, né nulla da dire. Guarda terrorizzato il senatore, che umilmente gli chiede un bicchiere d’acqua. Nella sua carriera non aveva visto nulla di straordinario, ma quella sera aveva dato uno strano senso al suo lavoro. Il senatore lo guarda, aspettando all’uscio del gabbiotto, ripete la sua richiesta al custode, che lentamente si gira a soddisfarla. Il senatore aspettava in silenzio, mentre il custode sudava freddo e non riusciva a togliergli gli occhi di dosso. Gli porge il bicchiere, prende il cellulare e chiama il 118.

     Arriva l’ambulanza, la polizia, i carabinieri, la stampa e anche i disturbatori televisivi. Sono tutti lì, a metà tra lo sconvolto e il curioso. I paramedici non trovano nulla di strano, malgrado la strana esperienza stava bene, decidono di portarlo comunque in ospedale. Il senatore non aveva bisogno di aiuto, camminava sulle sue stesse gambe affiancato dai paramedici sconvolti, uscendo dai cancelli del cimitero mostrava la sua strana smorfia che somigliava ad un sorriso. Appena uscito dal cancello del cimitero, i flash lo abbagliano, mentre mugolii di stupore si diffondono intorno. “Sto bene, state tranquilli!”. Il senatore fa tutto da sé, sale sul retro dell’ambulanza, si siede sul lettino e viene portato in ospedale.

     Tutto il team dei medici si precipita nella stanza del senatore, steso sul letto e vestito di un pigiamino sotto le coperte. Le analisi parlavano chiaro, il senatore stava benissimo, il cuore di un ventenne, le arterie di un bambino, i polmoni di un'aquila. Malgrado la sua età avanzata e le condizioni in cui lo avevano lasciato prima dei suoi funerali, in quel momento erano completamente all'opposto. La scienza non ha parole per tutto questo, i medici lo guardano mentre innocentemente mangia la sua minestra di zucchine ospedaliera, insipida e ipocalorica.

    I giornali non parlano d'altro. Tutti sono sconvolti, il senatore è tornato tra noi. Guarda la televisione, steso a letto, sogghignando per tutti quelli che lo credevano morto. A guardarlo da lontano sembrava che sapesse tutto, che non fosse sorpreso dall'evento. Per essere il secondo resuscitato della storia, era parecchio tranquillo. In realtà neanche lui aveva idea di come mai fosse stato riportato in vita. Lui era lì, però, se lo chiedeva tra un sogghigno e l'altro, divertendosi, come suo solito, a guardare la gente che lo vede come il diavolo in persona. Li aveva fregati tutti.

    Tornato a casa, ritrova i suoi affetti, così felici di ritrovarlo. Dolcemente, pranza assieme a tutti e torna nella sua stanza. Un po' stanco, indossa il pigiama, apre il cassetto dell'armadio, butta una mano per prendere un paio di calze e la sua mano tocca qualcosa di lucido. La stringe tra le dita e la riporta alla luce, dopo anni che non l'aveva ritrovata. Era lui, da giovane, accanto ai suoi vecchi amici, che lo avevano lasciato prima di lui. La tristezza lo invade, finchè non ascolta un fuoco nascergli nel cuore.

    Il senatore è sparito. Non si trova più. Non si sa dove sia finito. La famiglia, o quel che resta, disperata per averlo prima ritrovato e poi perso nuovamente, lancia un appello in televisione, perchè possa ritrovare la sua strada di casa. Magari confuso, ha deciso di fare una passeggiata e si è smarrito, magari come quelli che spariscono ed escono a "Chi l'ha visto", in fondo anche la sua era un'età avanzata.

    Sulla spiaggia non c'era nulla, se non il senatore disteso ancora con il pigiama addosso. Con varie testimonianze, salta fuori che il senatore aveva deciso di tornare ai suoi albori. Con gli organi da giovanotto che si era ritrovato, aveva fatto tantissima strada, tutta da solo. Aveva comprato alcolici, aveva bevuto, aveva fatto passeggiate tra i boschi, aveva visto i tramonti, le albe, le aurore. Aveva visto l'arcobaleno.

     Le orme dei suoi piedi scalzi ricalcavano tutta la strada che aveva fatto, fino a quella spiaggia. Non aveva ripreso fiato un solo momento, e di colpo la stanchezza lo ha colto. Cadde sulle ginocchia, stremato. Il sudore colava sul suo viso, e guardando il sole sorgere aveva capito il motivo del suo ritorno. Gli avevano dato un'opportunità, gli avevano dato il modo di rivivere anche quello a cui aveva dovuto rinunciare, Iddio o qualunque altra cosa lassù. Tutti abbiamo il diritto di farlo, e almeno di rifarlo una volta in più, di godere il mondo appieno nella sua straordinaria semplicità. Nel momento in cui lo capì, il suo corpo ritornò vecchio. Cadde sul petto, la faccia rivolta al sole, la sabbia sulle guance.

     Come Pasolini.

sabato 4 maggio 2013

Rabbia.

    "Ragazzi fate i bravi, che già si muore di caldo." Il professore di chimica iniziò così la prima lezione davanti ad una folla di trecento e passa persone. In seconda fila, in mezzo alla mia stessa razza di secchioni interessati a dare il meglio di sè sin dall'inizio, ridevo alle sue battute. Un uomo schietto pare, in qualche maniera. Se la tirava tantissimo, giustamente, dopo un imprecisato periodo di missioni in Africa e un imprecisato motivo di abbandono della professione medica per insegnare chimica a medicina. Anche io al posto suo me la sarei tirata. Raccontavano storie strane su di lui, che fosse un donnaiolo. Non mi è mai piaciuto seguire queste voci. Per quello che mi riguardava, poteva fare ciò che gli pare, l'importante è che facesse comunque il suo dovere.

    "Inizieranno a breve le esercitazioni, dove solitamente si rimorchia. Se dovete rimorchiare, però, rimorchiate in biblioteca, che state comodi e che non vi vedo io.". Tutti ridono e negli occhi brillano immagini di film americani stupidi da incassi imbarazzanti in madrepatria, ma con un enorme successo in Italia. Il ragazzetto col maglioncino, figlio di una famiglia bene di provincia, che si allunga sul quaderno della ragazzetta tutta in tiro, figlia di una famiglia bene di provincia, per rubare un bacio con la scusa del peso atomico del carbonio. Musichette imbarazzanti e strane figure che ballano in fondo all'aula.

     Ebbene si, rimorchiare in un aula da duecento posti quando si è in trecento è molto facile. Quantomeno, per sapere il peso del carbonio non ti devi allungare troppo. Puoi anche avere un'idea di quanto sia difficile per una sardina trovarsi in una scatola di sardine. Non si sta tanto stretti nemmeno ai circoli degli anziani, con il tipico odore di aria consumata e i colpi di tosse catarrosi, che sono anche più sopportabili rispetto alle alitate di panini al tonno, sigarette, caffè, e immancabile sudore emanati dai miei colleghi alle ore 14 circa. Ero sicuro di dare anche io il mio contributo, ma di sicuro la doccia l'avevo fatta e mi sentivo ben apposto con la coscienza.

     In situazioni del genere, un posto a sedere è fondamentale. Evitare le zone alte per non morire asfissiati, anche se per un posto a sedere in queste situazioni ci si venderebbe i reni. Alle 13 e 10 l'aula è semideserta, ma tutti i posti sono occupati. Basta poggiare un oggetto sul banco. Un quaderno, un diario, una carta di giornale, la propria dignità. Mai il proprio sedere, senz'altro, che ci vuole la sigaretta o la merendina della mamma prima di far lezione. Con la calma del protagonista di "giorno di ordinaria follia", trovo un posto alle zone alte, scanso la dispensa di anatomia firmata da un tale, poggio il mio zaino e il mio sedere stanchissimo. L'amica del tale, ad un posto più in là, mi guarda allibita e afferma che il posto sia occupato. Beffardo, rido e dico "E' vero, il posto è occupato, mi sono seduto io." "Si, ma...c'era la dispensa, era occupato..." "Eventualmente ci facciamo più stretti, non penso sia una richiesta assurda. E non penso neanche che una cosa del genere sia tanto corretta..." "Ma calmati, Dio mio, sei proprio uno stronzo..." "No, sono semplicemente stanco di stare in piedi".

     Arriva il tale. Vestito bene, non dice nulla. Non dico nulla nemmeno io, molto tranquillamente aspetto con le braccia conserte evitando di chiudere gli occhi e resistendo all'immane desiderio di caffè. Arriva un amico del tale reclamando il suo posto e il tale inizia a gridare contro di lui. Io attendo in silenzio, ascoltando sbandierare tutti i fatti dell'amico dal tale molto nervoso. L'amico, quasi in lacrime per l'imbarazzo, cerca di parlare, ma viene sovrastato dal tale che vomita romanesco. "Te nun te devi fà più vedè. Chi tte conosce? Chi  sei te? Vedi d'annàtte a fà 'n giro, va. Che già qui le cose non funzionano, che già sto nervoso per colpa di qualche stronzo che non rispetta le regole", dice guardando me. Prontamente dico "Io mi sono solo sed..." "Te vedi de sta' zitto che te rompo er culo.". E di litigare alle 14 non ha voglia nessuno, se non lui, che continuava a vomitare la sua giovane rabbia repressa per difendere i suoi diritti calpestati, mentre i gemelli alla giacca tintinnavano e le righe del gessato facevano terremoto.

     Mi sa che il pazzo non ero io, in quanto tutti guardavano il tale come un invasato. Io evitavo di farmi mettere in mezzo, e per fortuna così è stato. Il tale si siede vicino a me, inizia l'esercitazione. Improvvisamente mi chiede di prestargli la calcolatrice. Lo guardo spaventato e gli porgo la calcolatrice piano. "Si, è vero, mi sono scaldato un po', ma in realtà non sono una persona catt...", lo interrompo dicendo "Buono o cattivo è meglio che non dici niente."

     La Roma ha perso ieri, ed oggi c'è l'orale di chimica. E se la Roma ha perso, il professore è veramente incazzato. E se il professore che fa l'esame è incazzato, allora non c'è salvezza. Sguardo assente, mani giunte, non guarda in faccia nessuno. "Senti, guarda, succedono tante cose. Ad esempio, ieri la Roma ha perso...e tu torni al prossimo appello." La ragazza si alza in lacrime raccogliendo il libretto, e la voce gira in tutta l'aula. Storie del genere spaventano abbastanza. Soprattutto se ti ritrovi vicino a lui alle 17 dopo interrogazioni continue a partire dalle 9 del mattino.
     
     Domanda impossibile, e non ci so rispondere. Visibilmente incazzato, propone altro. Sparo giusto. Propone altro, sparo giusto ancora, inizio a disegnare il saccarosio con i legami giusti, poi inizio a non trovarmi coi conti. "Guardi professore, giusto qui non riesco a trovarmi con i conti, ma non riguarda il legame in sè..." "E mi sa che non ti trovi di molto con questi conti." Mi guarda incazzato, ma prontamente dico "No, un momento. Il legame è corretto, è corretto tutto, solo che non riesco a trovarmi con questi..." "Ah, giusto, si. Hai ragione, non importa molto. Scusami. Ultima domanda...". Colpito e affondato. Propone un voto senza infamia e senza lodo, visto che la Roma ha perso. Epperò, che stronzo, poteva alzarmelo. Non è basso, ma non mi soddisfa comunque. Ci tenevo a quest'esame. Mi faccio due conti e accetto. "Bravi, accettate tutto, ci si vede in giro." Mi porge incazzato il libretto, lo prendo, raccolgo la borsa e vado via augurandogli in silenzio di scambiare lo zucchero col sale.

     Ed è come un geco, sale sui nervi, prende tutto e via. Ti incazzi. Ti incazzi per la Roma che perde. Ti incazzi se ti fregano il posto. A seconda di quanto male può fare la tua rabbia, si manifesta il tuo potere. Più o meno fragorosamente si esercita la propria rabbia, più è evidente la propria forza, finchè, ad un tratto, di colpo, le persone attorno non iniziano a trattenere le risate.

     E' quell'emozione che sale quando incontri quella persona che non volevi incontrare, proprio nel momento in cui ti riposi. Sbarri gli occhi, interrompi il tuo discorso con i tuoi amici, che ti guardano come se avessi avuto un ictus, interdetti, mentre senti il geco lungo la schiena congelata e per l'imbarazzo giri dall'altro lato la faccia paralizzata.

    E' l'emozione che sale quando ritrovi pezzi di quella parte della tua vita dedicata a persone sbagliate, e seduto sul pavimento in un giorno di Luglio, trovi la forza per strappare di netto in due parti un quaderno a righi con dentro scritti i segni di tutto ciò.
    
     Ebbene si, un uomo incazzato è un uomo grottesco, ridotto alle pezze di se stesso. Un uomo che grida per allontanare i piccioni e si scatena per non farli tornare è semplicemente ridicolo. Gli basta vestire la sua faccia per far ridere, più o meno senza controllo. Arrabbiarsi è rendersi ridicoli, e inevitabilmente perdere tutto il potere che si ha, farlo cadere in frantumi senza recupero. Un uomo forte non ha bisogno di esercitare il suo potere, lo detiene e basta. Se lo esercita, mostra la sua paura, la sua infima debolezza senza recupero.

   Eppure, al di là di tutto, la rabbia rigenera. Che sia un vaffanculo silenzioso, urlato, sussurrato, pensato, nulla ricostituisce le forze più della rabbia. E come fenici, si rinasce, si va avanti. E il segno di quel giorno in cui ti sei arrabbiato, resta per sempre, è un battesimo autonomo, una festa infuocata in cui trionfa la voglia di vivere.

     Non ho mai seguito il calcio, ma dal giorno in cui ho dato chimica, sono contento quando vince la Lazio.

venerdì 12 aprile 2013

Goku.

    Il pomeriggio uggioso di un bambino della mia generazione poteva essere trascorso in diversi modi. Il bambino diligente lo avrebbe passato tutto il pomeriggio a studiare. Il bambino ribelle e scapestrato lo avrebbe passato al computer o alla televisione. Quello che è certo è che anche il bambino diligente si sarebbe scocciato di studiare prima o poi, per unirsi, in parallelo, allo strano hobby del bambino scapestrato che, in una giornata uggiosa, si nutriva di cartoni in tv o di giochi violenti al computer. Sicuramente, i genitori dell'uno e dell'altro si sarebbero rassegnati all'idea di girare per casa e di trovare il loro piccolo prodotto di fronte ad uno schermo grande o ad uno schermo piccolo nella classica posizione dell'auditore medio, la boccuccia semiaperta e gli occhi fissi e spalancati, posizione che ricorda tanto quella dei reduci del Vietnam affetti da traumi psicologici irreversibili.

    Il palinsesto televisivo del pomeriggio presentava la stessa formula con diverse fragranze e aromi, in una mistura da tirare tutta d'un fiato in un pomeriggio uggioso. C'erano i cartoni di Mediaset che iniziavano all'una e mezza e finivano verso le sei del pomeriggio, i cartoni della Rai che finivano un poco prima, i cartoni fichi delle reti regionali a orari irregolari e che ormai non guardava più nessuno, se non qualche bambino annoiato in una giornata uggiosa. Il tema principale, ad ogni modo, era quello dei supereroi.

    I supereroi sono davvero fichi. Non nascondo di essermi alienato con piacere nelle puntate di Spiderman, i film di Spiderman, Hulk, Wolverine, gli X-Men, i Fantastici 4, i Digimon, l'Uomo Tigre, Batman. Non nascondo di aver provato a fare anche io l'onda energetica di fronte allo specchio, di aver stimato Batman per essere l'unico supereroe senza nessun superpotere e di riuscire a spaccare tutto nonostante questo handicap per la sua categoria. Non nascondo neanche di aver immaginato di poter diventare anche io un Supersayan, e di sperare che arrivasse qualche ladro in casa per poterlo mettere K.O. con qualche mossa superefficace che avrei ideato al momento. Fortunatamente, la mia fantasia si fermava ai viaggi mentali e mi rendeva sufficientemente cosciente a capire che uno zaino con l'effigie di un supereroe non mi avrebbe aiutato nell'impresa.
  
     Le pubblicità millantavano i supereffetti che i gadget di tutte le serie a cartoni avrebbero avuto sul loro possessore. Vedevo i miei coetanei sfoggiare cose sofisticate, superpupazzetti di Dragonball e di altri tipi tosti e mi chiedevo se pensassero davvero di poter diventare forti come loro semplicemente ordinando ai loro genitori di comprarglieli. Dopotutto, non avevo mai visto Goku combattere indossando qualche zaino strano, o Batman arrestare il Joker con un astuccio.

    Neanche le ragazzine erano immuni a questi strani viaggi, i supereroi per loro c'erano. Sailor Moon, Lady Oscar, Occhi di gatto, neanche loro se la passavano male, le loro coreografie erano paragonabili a quelle di noi maschietti e anche i gadget per loro erano sempre quelli. Non potevo fare a meno di notare che si trattava sempre degli stessi prodotti, ma con colori, immagini e stemmi diversi. Ognuno, però aveva il suo modello di eroismo, quel personaggio a cui aspirava.

    La televisione non ha fatto che porre questo agli occhi dei bambini, almeno a partire dalla mia generazione: infiniti modelli a cui aspirare. Ho sentito anche persone più grandi raccontarmi di aver imitato Zorro o il tenente Colombo da bambini, ma sono sicuro che il passare del tempo ha aumentato esponenzialmente il numero di spunti da cui prendere. Sicuramente, in quattro ore e mezza di cartoni animati per sei giorni a settimana ci si può mettere davvero di tutto.

    Passata l'età dei cartoni, si arriva alle serie televisive. Ormai la fantasia è (apparentemente) obsoleta, non piace più la finzione disegnata, si preferisce quella recitata dal vivo. I cartoni sono troppo finti. In fondo, per quanto ci si possa impegnare, rispetto a quella di un tipo che quando si incazza diventa biondo e di pessima compagnia, è più convincente la storia delle casalinghe di Wisteria Lane che non vivono un giorno della loro vita senza impicciarsi nei fatti degli altri. Se ci scappa il morto, l'intreccio è anche più succulento.

   Anche nelle serie televisive l'immedesimazione è davvero forte, se non più forte rispetto ai cartoni animati. Ho conosciuto persone uscire pazze per attori di qualche serial, altre persone diventare dipendenti dalle puntate settimanali e altre ancora spendere patrimoni in ulteriori gadget, che non erano più semplici astucci e altra roba di cartoleria. Tutto pur di sentirsi più vicini ad una finzione così ben costruita da desiderarla reale.

   Nel frattempo, il passaggio più crudo è ancora nascosto. Nasce di nascosto nell'animo dello stesso individuo in formazione. Arriva al punto delle responsabilità, ed il tempo dei giochi scade di colpo. Suona la campanella, fredda e inesorabile, il capotreno richiama tutti in carrozza, il treno parte e chi si ferma è perduto. Il cucciolo si ritrova nel mondo nuovo, completamente abbandonato a se stesso.

    Un fandango di strane emozioni si mescola nella mente del piccolo, innocente. Gli manca qualcosa che lo ha sempre accompagnato in tutti gli anni della sua vita. Non ha più il superpotere dello zaino di Goku, non ha più la bacchetta magica di Harry Potter, non ha più la tranquillità del piccolo grande modello etereo che lo ha accompagnato senza mai lasciarlo solo.

    Tanti piccoli polpi dalle mille braccia nello stesso acquario, uno aggrappato all'altro, immersi nelle stesse lacrime di noia, paura, angoscia, disperazione per qualcosa della cui illusione si erano ingozzati, uno più dell'altro. La orribile paura di non potercela fare, la voglia di tornare indietro, e il mondo che non dà retta a nessuna supplica.

    Solo a quel punto si può diventare maturi. Basta fermarsi un momento, basta avere il coraggio di guardarsi in faccia e capire una volta per tutte quanto possiamo essere sufficienti a noi stessi. Per fortuna, la risposta è positiva quasi sempre. Eppure, a tutti resta l'angoscia, il bisogno costante di un modello, che non è più un disegno, non è più un personaggio statico disegnato a tavolino. Il modello si trasforma in un essere umano, in carne ed ossa. 

    Tanti piccoli gruppi si aggrappano ad un idolo solo, seguono ogni cosa che fa e lo circondano pendendo dalla sua mistica esperienza. Lo seguono come sacerdoti dello spirito, e l'idolo sembra quasi inconsapevole di tutto ciò. Nel migliore dei casi lo è, nel peggiore dei casi gode della sua posizione e controlla la volontà dei suoi seguaci, inconsapevoli di essere così dipendenti da una persona sola.

    Non possono farne a meno. Hanno bisogno di qualcuno a cui consegnare la propria volontà, in tutto e per tutto. Un orrendo gioco tra vittima e carnefice, in cui tutti sono consenzienti. Basterebbe, però, poter capire di poter fare a meno di ogni modello, di potercela fare da soli, come tutti da soli hanno fatto cose straordinarie. Il modello che ognuno aspetta non è che se stesso, l'unica cosa da cui dovrà dipendere.

    Altrimenti, solo Goku potrà salvarci.

lunedì 25 marzo 2013

Scoppiato.

     -Al militare, quando uno arrivava al tuo stato, significava che era "scoppiato".-, mi fa mio padre al telefono. Come tutte le persone che parlano poco, mio padre ha sempre ragione. -...si. Non potevo trovare parola migliore. Hai perfettamente ragione, è così, sono scoppiato.-. Se non sei un militare, se ti trovi all'università, scoppiare significa avere così alla nausea un esame da uscire di testa. E' un meccanismo inconscio, vengono fuori tante piccole paranoie inutili e senza senso che cercano disperatamente di avere la priorità sul problema vero e proprio: dover studiare per questo esame di merda.

    E' una condizione strana. Non sei pazzo, non esci pazzo, solo che cambi umore da così a così. Sei irritabile, ti svegli male, dormi male, all'ora di pranzo sei di cattivo umore, all'ora di cena sei di cattivo umore e non hai voglia di vedere nessuno a volte. Pranzi in contemporanea ai vecchi negli ospizi verso le dodici e trenta, ceni in contemporanea alle più ligie suore di clausura verso le diciannove e trenta, ti svegli presto, metti i primi vestiti che non puzzano e vai a studiare.

    -Ciao! Cosa mangi?-. Alla mensa sono quasi di casa, gli inservienti mi conoscono tutti. -Prendo il risotto...porto via.- -Come stai bello?- -Stanco.- -Mamma mia, che palle, solo una cosa sai dire?-. Prova ad essere uno scoppiato sotto esame, prova a sentire ogni giorno la stessa domanda, prova a rispondere ogni giorno con sincerità, prova a evitare di rispondere ad una frase del genere con: -Si vede che non hai mai studiato un cazzo in vita tua.-. Sono scoppiato però, non sociopatico. Sorrido, -Che posso dirti più di questo?-, prendo la busta e vado a pranzare a casa mia.

    I libri di fisica di basso livello contengono esercizi che sembrano fatti per prendere in giro gli studenti. Una volta ho calcolato la pressione che Superman doveva esercitare per bere un succo d'arancia con una cannuccia lunga 200 metri. Un'altra volta ho calcolato la differenza di potenziale che bisognava applicare agli elettrodi alle tempie di un paziente per fargli un simpatico elettroshock alla corrente di 4 milliampère. Il libro sembra volerti umiliare proponendoti situazioni del genere, con la scusa di rendere la didattica più appetibile ad un moccioso della tua età che, mediamente, pensa solo alle belle ragazze e a informarsi su "che ha fatto il Milan". Così, continui a fare esercizi così sperando di non doverne fare mai più in vita tua.

    Il posto in cui vivo è pieno di verde. Il sole primaverile mette di buonumore, cammino sotto il mio felpone nero, mentre un venticello se la prende con i miei capelli sempre spettinati. Vedo gente che conosco. Indossano cose con stampato il nome di altre persone, che sembrano aver rubato i vestiti a qualcuno che ha la mamma così premurosa da scrivere il nome del proprio figlio su ogni capo che indossa. Non vorrei essere nei panni dei piccoli Anthony Morato, dei fratellini Giorgio ed Emporio Armani, o ancora del piccolo Roberto Cavalli quando torneranno negli spogliatoi e si troveranno con un paio di pantaloni o con una magliettina di meno. Se la tirano così tanto da non poter salutare uno con il felpone della Decathlon, non ora che stanno in gruppo. Io li saluto lo stesso, mi metto a ridere e sto in compagnia di qualcuno a cui non fa schifo il mio abbigliamento. Ve lo garantisco, il felpone non l'ho rubato al signor Decathlon, l'ho comprato io.

   Quando sei scoppiato, ogni occasione è buona per ridere. Spunti di cinismo a non finire, a tratti risulti quasi piacevole come quando sei al massimo delle forze. Se sei scoppiato, non sei triste, sei solo costantemente stanco. Una sera come tutte le altre, ti ritrovi al ristorante ad ordinare una pizza. C'è troppa gente, l'attesa è lunga, finchè una del gruppo non propone di ordinare delle pizze ad un'altra pizzeria e di andare a mangiarle tutti insieme in aula studio. Geniale.

    Il sabato sera le aule studio sono vuote. Non credo che siano mai entrate delle pizze in quella stanza, o delle bottiglie di coca cola, ma c'è sempre una prima volta. 15 persone in una stanza bianca, 15 matricole tutte scoppiate, o quasi. Sicuramente io più di tutti. Iniziamo a giocare a giochini stupidi, a proporci indovinelli e barzellette idiote, proprio come nelle migliori assemblee di classe. La lavagna è piena di schemini per rompicapo, fatti da quelli che li vogliono risolvere a tutti i costi, e tu sei lì, a cercare di spremere il meglio anche da te, che per stasera non si studia. Cartoni di pizza sparsi sui banchi e ricordi liceali di feste natalizie, di cui ho fatto a meno da un anno appena. Finito di mangiare, la stessa ragazza di prima propone una partitella a nascondino. Davvero geniale.

    Metti insieme 15 ragazzi tra i 18 e i 21 anni. Mettili a giocare a nascondino in una sera dal cielo aperto. Falli gridare "mamma per me" mentre si schiantano le mani al muro ruvido fino a farsi sangue. Quelli che si mettono a cercare gli altri comunicano tra loro via Whatsapp, mentre ogni tanto qualcuno grida al fiasco, e si spera non venga la sicurezza del posto a rompere il cazzo. Se ti vedono, corri. Corri e basta. Libera te e, se ce la fai, libera tutti. Nel frattempo, un Dante contemporaneo vestito da rapper, ci urla contro qualcosa per prenderci in giro, perchè dovremmo vergognarci di fare una cosa così. Dal chiuso della sua stanza, oltre la porta circondata da sacchetti della spazzatura che non ha voglia di portare al bidone, il giovane scoppiato ride indignato elemosinando attenzioni. Siamo troppo veloci, però, troppo impegnati a non pensare a lui. Scoppiati siamo tutti, sebbene pochi vogliano ammetterlo.

    -Ehi, sarà questo il nostro nascondiglio segreto, non lo dite a nessuno, così per le prossime volte usiamo sempre questo.-, mi dice una durante una partita. Ed io mi nascondo insieme a lei e ad altre quattro scoppiate come me. Lo so già, però, a questo gioco non giocheremo mai più. Il vantaggio di essere scoppiati è la voglia di tornare indietro. Il vantaggio di trovare altri scoppiati è poterlo fare per qualche ora, finchè si è in tempo.

    Non si può mai sapere quando arriverà il momento in cui ripenseremo a questi momenti e proveremo vergogna.

venerdì 15 marzo 2013

Paparazzingher.

Sono arrivato a 2000 visite. Che siate qui per caso o perchè sapete della mia insana passione, vi ringrazio di cuore per il vostro appoggio. Scrivo perchè mi rilassa, ma avere persone che leggono ciò che produco è sempre una soddisfazione enorme. Che vi conosca o meno, che mi conosciate o meno, grazie mille.

E ora qualcosa di completamente diverso.
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    "Porco D**!". Afferra i bordi del distributore automatico e lo spinge avanti e indietro. Gli ingranaggi sembrano essere davvero decisi a non dargli ciò per cui ha pagato, così cerca di convincerli con più veemenza. "Porca Ma*****!!", sbotta cercando di spaventare il macchinario, sperando che prenda vita e gli chieda anche scusa. Niente, questo ammasso di ferro sembra proprio essere insensibile, e per giunta ancora meno credente del povero idraulico affamato, che guarda l'orologio e manda affanculo il ladro senza un cuore.

    La cappella è grande quanto una piccola stanza. Ha quattro file di banchi probabilmente presi all'Ikea, qualche sedia accomodante, delle immagini sacre e un piccolo altare intonacato. Il prete ha la stazza di Galeazzi e aspetta tutto il giorno nella piccola stanza, probabilmente fredda. I finestroni permettono di vedere tutto all'interno, anche le domeniche in cui il prete dice la messa ad una platea inesistente. Compie ogni rito da solo, senza nessuno ad ascoltarlo, solo Dio, lui stesso e magari la gente che abita al piano di sopra, sempre se non è da qualche altra parte.

    Credo in Dio, ma non vado molto spesso a messa. Tecnicamente, non vado mai a messa, più che altro perchè ho da studiare. E' una pessima scusa, me ne rendo conto, qualche volta me ne dispiaccio anche, tranne che nei periodi d'esame. In quei periodi non ho tempo nemmeno per dispiacermi, solo per studiare, mangiare e dormire. Vado in aula studio verso le 20 di una monotona domenica sera. Passo di fronte alla cappella, c'è anche qualcuno dentro ad assistere al rito della settimana. Vado a studiare, dopo circa un'ora esco a fare una telefonata. Sono ancora lì, a celebrare la messa. La mia telefonata dura un quarto d'ora e la messa deve ancora finire. Ci credo che non va nessuno a seguirla. Chiudo la telefonata con un sorriso ironico, di cui mi pento qualche secondo dopo.

   Non passa giorno in cui non senta almeno una persona chiamare in causa un santo, la madonna o il megadirettore in persona. Non mi dà fastidio sentire bestemmiare, ognuno è libero di fare ciò che meglio crede, ma per principio non bestemmio. Non bestemmierei neanche se non avessi fede, semplicemente per rispetto di chi ha fede e si sente disturbato dal sentire qualcuno che impreca in quel modo. "Porco D**!". Quando lo sento mi guardo intorno. Trovo sempre qualcuno che si stupisce e sorride, qualcuno che pensava alla stessa cosa e in silenzio approva quelle due sante parole, qualcuno che abbassa la testa e stringe il muso.

   Chi bestemmia non se ne rende conto, non essendo nella dimensione della fede e, magari, non conoscendone neanche le proporzioni. Se si prova a chiedere a chi bestemmia il motivo per cui lo fa, sentirà dire che è normale arrabbiarsi e prendersela con qualcosa che non esiste,  ovvero Dio. Se poi si prova a chiedere come fa ad essere tanto certo che Dio non esista, la risposta sarà qualcosa riguardo alle guerre, alla fame, alle carestie, al fatto che se ci fosse Dio non permetterebbe tutto questo. "Quello è merito del diavolo, non di Dio." "Ehi, senti, che cavolo! Volevo solo bestemmiare, Cr**** Santo!"

   La bestemmia è un atto di potere. Se qualcosa va storto, bisogna dimostrarsi forti. Per dimostrarsi forti e per sfogare la rabbia, ce la si prende contro qualcosa di cui non si ha paura.   Per questo si chiama Dio in causa. Lui in persona o chi sta lì vicino, tutta colpa sua che ha permesso questo. Bestemmiare significa chiedere "Ma perchè a me questa cosa proprio in questo momento?", e quando non si ha la risposta a questa domanda, si trasforma automaticamente in odio contro qualcosa di immenso.

    Dio è il rifugio degli afflitti, ma essere afflitti non va più di moda da un pezzo. Chi crede in Dio è debole, chi bestemmia è forte. Chi crede in Dio segue la moda, chi bestemmia è un ribelle anticonformista. Nessuno vuole essere una pecorella che segue la massa, così tutti iniziano a bestemmiare, per evitare di essere uguali agli altri idioti senza cervello che credono in qualcosa paragonabile a Tonio Cartonio. E' bello ogni giorno avere a che fare con un'enorme massa di anticonformisti. E' una grande vittoria contro il sistema.

   Una splendida sala piena di ultrasessantenni in costume è pronta a scegliere in che modo rispondere alla blasfemia dilagante, in quale persona si tradurrà l'opposto della blasfemia. Vince un tedesco strano dal nome ancora più strano. Sembra Zio Fester con i capelli, o ancora di più somiglia al cattivo di Guerre Stellari. Sceglie un nome che sa di antico, con un numero ancora più strano, ma tutti lo chiamano Paparazzingher.

   La terra del rigore partorisce l'alternativa all'alternativa. Fa un po' paura a vederlo, ma ha un tono di voce che suscita tenerezza. La sua bocca mastica dolci parole italiane e le trasforma in schegge germaniche. Tante consonanti quasi a caso in una figura che suscita il sorriso. Non un nome più appropriato per Paparazzingher.

   E' il nuovo capo di un'istituzione in crisi. Un sistema di regole rigide in una società liquida, che deve cercare di accontentare per evitare di perdere seguaci. La scelta è tra accomodare le scelte di un'umanità in progresso e svolgimento oppure diventare ancora più rigidi e cercare di domare il gregge famelico.

   I concetti ecclesiastici sono troppo complessi per essere spiegati a gente che non ha tempo, bisogna colpire con frasi brevi e significative, che suscitino curiosità ed attenzione. Il nuovo catechismo non è solo un librone inutile, lo danno anche in edicola nel formato tascabile, tutto pieno di risposte alle domande più frequenti in un linguaggio abbordabile anche ai più lenti. Il marketing convince abbastanza e sembrano esserci meno scuse per chi non vuole avvicinarsi al mondo mistico del Signore Iddio solo per pigrizia. Fatto questo, è ora di passare a nuovi slogan e nuove frasi d'impatto. L'aquila germanica non ha posa e batte il pugno sul tavolo di un mondo in rovina. 

   Paparazzingher non si fa attendere, si alza nel suo rigore e sentenzia: "I profilattici non combattono l'HIV, anzi, ne facilitano la diffusione.". Il povero vecchio aveva mancato l'obiettivo, e anche di molto. Probabilmente voleva intendere che "Se non foste tanto fissati con il sesso, vedreste come l'HIV non si diffonderebbe tanto.". Ed è vero, è equivalente al modo migliore per non prendere l'influenza: non uscire mai di casa. Le parole sono importanti, però, ed una frase del genere aveva bisogno di parole più chiare, per quanto discutibile. La reazione dell'opinione pubblica si è potuta tradurre molto banalmente in un: "Ma che cazzo dici?".

    L'anziano ci riprova aprendo ai musulmani. E' un argomento delicato, ma bisogna risolvere anche questo, in nome della stabilità della Santa Istituzione. Indetto un dibattito, anche lui prende la parola, con discorso fermo e deciso, inevitabilmente frainteso. Un discorso contro la guerra santa viene interpretato con qualcosa che suona come "il vostro Dio è un pazzo sanguinario". Inevitabili polemiche e inascoltate le repliche, che hanno il suono di un miagolio in mezzo al traffico caotico. Anche questa volta, tutto il mondo tuona un perentorio "Ma che cazzo dici?"

   E ancora una volta con i negazionisti della Shoah. Non lo vogliono neanche all'università, Paparazzingher. Per giunta viene fuori che lo vogliono ammazzare per dare posto ad un italiano. Questo ed altri documenti segreti vengono fuori, per mano di un hacker e un cameriere traditore. Condannati dal tribunale vaticano, che sembra quasi imbarazzato a doverlo fare, a qualche anno di galera. Paparazzingher, però, non è cattivo. Li perdona e li manda a casa a giocare.

   Paparazzingher è stanco. In un mondo che cambia, nessuno vuole starlo a sentire. Stringe il pugno immerso nell'acqua cercando di prenderne un po', tira fuori il braccio fradicio stringendo il nulla in mano. Ha solo idee antiche in cui credere, ha vissuto in funzione di quelle idee, e il mondo gli ha riso in faccia. Come l'uomo che fallisce, abbassa la testa e va via.

    Cerco di calmare l'ansia prima di essere chiamato all'orale. I professori interrogano due ragazzi alla volta e la gente intorno a me ripete. Accendo il cellulare e vado sul sito di qualche agenzia stampa per vedere che succede nel mondo. Leggo la notizia e mi sembra assurdo. Non era mai successo. In un istante avevo capito ogni cosa, avevo visto le lacrime di un uomo fallito nel breve di una dichiarazione ufficiale. Per quanto non appoggiassi le sue idee, è triste vedere il fallimento di un uomo. Paparazzingher piange e se ne va. Sorridendo dico "Ragazzi, il papa si è dimesso.", ed un piccolo coro mi intima di star zitto, "che cazzo pensi a 'ste cose, coglione, che hai un esame da fare! Cazzo te ne frega del papa!?!".

    Vedendo un vecchio piangere la rovina dei suoi giorni, ho chiesto ai miei coetanei di guardarlo piangere. Ho sentito tuonare anche su di me quella frase perentoria, "Ma che cazzo dici?".

    Mi è parso anche di sentire l'eco di un "Porco D**".

domenica 10 marzo 2013

Cavallette.

   Le giornate di primavera sono belle da passare in bicicletta. Te ne vai per le campagne piene di verde, con il cielo pulitissimo e immerso nel sole. In realtà ho sempre detestato l'insieme dei colori verde dei prati, azzurro del cielo e bianco del Sole. E' un abbinamento che non funziona bene, il verde con l'azzurro e con il bianco. Sembrano i colori della bandiera di uno stato dimenticato dalle relazioni diplomatiche, che sta da qualche parte nel Pacifico, una di quelle bandiere che si vedono ogni tanto, che hai già visto una volta ma non sai di che stato è, poi un giorno te lo dicono e tu fai "Ahh, si, è vero", e il giorno dopo te lo sei già dimenticato.

   Nulla toglie, però, al piacere di una scampagnata. Soprattutto quando non hai troppi doveri e il tuo problema principale è ancora sapere come finisce Dragonball. Immancabile il papà, con tuo fratello già un po' più impegnato di te, ma che un buchino è riuscito a trovarlo. Lasci la bicicletta da una parte e vai verso qualche pianta che attira la tua attenzione. Di colpo, ti arriva un ceffone sul polpaccio, ti giri a vedere e ti accorgi che un'enorme cavalletta ti è saltata addosso. Inizi a scalciare e a maledire qualche specie animale (per i santi è ancora troppo presto), quando finalmente l'insetto cambia obiettivo lasciandoti un bel segno rosso sulla gamba. Io odio le cavallette.

    E' passato molto tempo da allora, ma quella è stata una di quelle sensazioni che non mi riesce di dimenticare, come quella di quando morì il papa, o anche quella della mezzanotte del l'1 gennaio 2000. Il posto in cui abito ora è immerso nella campagna. Tra poco è primavera ed inizio già a temere l'arrivo di qualche cavalletta. Un giorno, andando in facoltà, vedo per terra una sagoma allungata, con due sporgenze verso un'estremità. Riconosco subito quello che ero sicuro che prima o poi avrei incontrato, giro i tacchi e faccio la strada lunga. Dannate cavallette.

   Il pensiero mi accompagna per qualche ora, poi torno a casa e la trovo sempre lì, esattamente dove l'avevo vista l'ultima volta. In un certo senso mi tranquillizzava la cosa, quantomeno non dovevo aspettarmi di vederla sbucare da qualche parte inaspettatamente per ritrovarla a zampettare allegramente sulla mia faccia, mentre maledico sia specie animali che qualche coro angelico in preda al panico.

  Quella sera è piovuto parecchio. Il mattino seguente, uscendo di casa, con un certo sadismo ho immaginato quella bestiola affogata in qualche pozza di fango, per poi trasalire un momento non ritrovandola più nel posto in cui era. Facendomi coraggio, avanzo per la strada che avevo abbandonato, mi guardo intorno e ritrovo la stessa sagoma confinata all'angolo della porta a vetri, girata verso il muro. La cosa mi tranquillizzava di più, quantomeno era lontana dal percorso. Decido di farlo notare a qualcuno, magari ha più coraggio di me ad avvicinarsi a quella cosa.

   Scopro con una certa sorpresa che non sono l'unico a cui fanno schifo le cavallette. Mi sento un po' meno smidollato e quando passo di lì ho un po' meno paura. La cavalletta è rimasta lì per giorni interi, non si è mossa di un secondo. Due erano le ipotesi, o era morta o stava facendo la muta. E nel secondo caso, aveva scelto decisamente il posto sbagliato. Mi avvicino con un collega e decidiamo che la cavalletta stava facendo la muta. Una cosa meravigliosa, ma andava sterminata senza pietà, "prima che qualcuno si possa fare male", dice il mio collega.

   Torno a casa con certi pensieri sull'evoluzionismo e vado a fare il mio solito riposino pomeridiano, non senza sentirmi un tantino crudele nel pensare a come poter distruggere una bestiolina sotto le coperte del mio letto.

   La cavalletta era lì da circa tre settimane, ormai mi ero abituato a quella cosa ferma lì in attesa di qualcosa. Uno sguardo lì ogni volta che passavo non riuscivo a non buttarlo, finchè un giorno non ho visto quella cavalletta completamente rivoltata sul dorso. Tra l'ipotesi che stesse in quella posizione a guardare il soffitto perchè i vicini mettono spesso Gigi D'Alessio a volume alto e l'ipotesi che fosse morta mi è sembrata più evidente la seconda.

   Molto spesso ci sono cose che ci fanno paura, che incontriamo spesso durante il giorno, che ci passano in mente toccando ogni singola cellula e scatenando piccoli tornado di terrore puro condensati in qualche secondo, il cui risultato è il brivido incontrollato tra un boccone e l'altro, mentre si studia o mentre si canta qualche canzone stupida sotto la doccia. E' un mostro in agguato per molto tempo in mente, pronto a saltare fuori alla prima occasione per rovinarci un paio di minuti della giornata.

   La cosa curiosa è che poco a poco, se ci facciamo caso, queste piccole paure, messe insieme nei loro momenti di attacco durante la giornata, a lungo andare riescono a rubarci, sommando i momenti, ore intere della nostra vita, che avremmo potuto destinare all'amico che non sentivamo da tempo, a portare la busta della spazzatura, a guardare il sole facendo un bel respiro di aria fresca. Sono le cavallette a toglierci il tempo per tutto questo, le piccole cose di valore inestimabile, portate via da qualcosa che, alla fine, non era nulla di spaventoso.

   Intanto, una cavalletta se la ride dal paradiso delle cavallette. E' riuscita a godersi la vita senza finire tra le fauci di un gatto o di un cinese di passaggio, ed è riuscita a godersi anche la morte prendendo per il culo una decina di altri animali trenta volte più grandi di lei.

   Stupidi umani.