sabato 19 gennaio 2013

Ubriaco.

    Una giornata come tante, a Gubbio. Il cafone porta le pecore a pascolare, il Sole sorge come sempre, un gatto ondeggia sul muretto dell'oratorio, l'acqua delle fontane è fresca, l'aria di primavera solletica il volto stanco dei vecchi mattinieri. I bar espongono i cornetti caldi, ed ogni volta che qualcuno apre la porta per entrare, l'aria nei paraggi si profuma di sfoglia calda, crema al cioccolato fumante mista all'ammoniaca della crema pasticcera. La città si sveglia, e la perpetua, sveglia già da un po', sbuffa mentre passa il mocio sul pavimento dell'altare.

    Le tapparelle sono tutte chiuse e Radio Maria rimbomba alle 8 e 30 nella stanza del parroco. Con un gesto pacato, spegne la sveglia, accende la luce, apre gli occhi azzurri, sbadiglia e sente il fetore della sua stessa fiatella. Guarda l'orologio con aria spenta, si inginocchia, fa il segno della croce e dice le sue preghiere. Guarda Gesù in croce, si sente annebbiare la vista e si ritrova con il mento contro il petto. Rialza la testa, si dà un paio di schiaffi in faccia, ricomincia la preghiera, quando improvvisamente gli si annebbia di nuovo la vista, sente un dolore fortissimo alla faccia e un freddo glaciale.

    Si solleva dal pavimento con il naso indolenzito, ricomincia la preghiera, ma puntualmente si assopisce. Una nottata infame, anche ad un prete può succedere. Ricomincia una terza volta, e questa volta riesce a non interrompersi. Si veste con i suoi soliti abiti, mette il collarino bianco, si guarda allo specchio e sbotta: "Oggi non è giornata."

    Va in cucina, prende la caffettiera dal fornello e si versa un po' di caffè. Prende una fetta di ciambellone e si siede al tavolo per fare colazione. Manda giù un sorso di caffè, e in men che non si dica gli torna su. Un caffè pessimo, disgustoso, che non si corregge neanche con lo zucchero. Apre il frigo e si sciacqua la bocca con un bicchiere di acqua frizzante. Neanche il ciambellone sembra commestibile, e la giornata era già iniziata molto male.

    Si lava i denti e si guarda allo specchio. Il suo naso è tutto rosso, probabilmente per la botta di poco prima. Il naso è l'unica cosa che riuscisse a dare un po' di colore alla sua pelle bianca come un pezzo di intonaco. Sarebbe stato irrilevante se solo tutta la sua faccia fosse stata rossa quanto il suo naso, o almeno un po' più colorita. Il problema era che quel naso così rosso dava al suo volto le spiacevoli fattezze di un ubriaco.

    Si sciacqua il viso con l'acqua gelata, più di una volta, ma proprio nulla riesce ad attenuare quel colore così strano. Sospira, guarda l'orologio e inizia a correre, perchè dieci minuti prima avrebbe dovuto trovarsi sull'altare per la prima messa del giorno.

    Indossa l'abito, la pianeta viola al contrario, tira con forza il campanello e si precipita sull'altare. Le vecchie della prima fila borbottano, lo guardano di sottecchi e parlottano tra loro scuotendo le teste un po' calve. I loro vecchi mariti, seduti in ultima fila, ridacchiano mostrando alle mura della chiesa i loro sorrisi usati. Il sacerdote sospira ed inizia la liturgia.

    Si fanno le dieci, ed è ora della messa dei giovani. Il Sole riempie ogni angolo della Chiesa, che come sempre è piena. Il rosso del suo naso non sembra proprio diminuire, ma la liturgia non può celebrarla nessun altro. Va all'altare un po' imbarazzato, ed inizia la messa per la seconda volta. Finito di leggere il Vangelo, gli si gela la schiena. Si era dimenticato di preparare l'omelia per la messa dei giovani. Aveva preparato solo quella per la messa dei vecchi, ma non per quella dei giovani. Oltretutto, aveva anche dimenticato il foglio in sagrestia.

   I piccoli in prima fila non aspettano che l'omelia divertente del prete buono, il prete che fa tante battute e fa dell'omelia un bel gioco, una lezione divertente con cui passare il resto della settimana. Ma il prete non aveva preparato nulla, e improvvisare non era decisamente il suo forte. Non dice nulla, pietrificato ed imbarazzato. I chierichetti ridacchiano, ed il sacerdote inizia a perdere la pazienza. Respira, arrabbiarsi nel luogo del Signore non è molto conveniente. Si calma, inizia a dire qualcosa e tutto sommato sembra cavarsela. Non improvvisava qualcosa da un bel po', e parlava guardandosi intorno, un po' smarrito, con quel suo naso rosso, proprio come un ubriaco.

   I genitori borbottano, e i bambini ridacchiano. Non si sente il coraggio di confessare di essersi dimenticato, per questa settimana, di preparare l'omelia. Un po' deluso, chiude il suo discorso poco convincente e prega intensamente che la giornata vada un po' meglio.

   Tolti gli abiti, inforca la bicicletta e fa un giro per schiarirsi le idee. Va in campagna, pedala forte, e verso un casolare intravede cinque macchine dei carabinieri ferme davanti al portone. Qualche gendarme cammina avanti e indietro, qualcuno scrive qualcosa e qualcun altro parla con dei civili. Questa volta non gli va, non gli va di curiosare. Non è giornata oggi, la giustizia può fare benissimo senza di lui. Pedala, e non ha altre vie da percorrere per evitare il casolare.

    Stringe i denti, si alza sui pedali e decide di sfrecciare davanti a tutti, di evitarli. Il capitano dei carabinieri lo vede in lontananza lasciarsi alle spalle una nuvoletta di polvere, e lo guarda perplesso. Il maresciallo fa altrettanto, e vedendolo passare davanti a tutti senza neanche salutare, sorride sotto i baffi. Il capitano, soddisfatto di non trovarselo tra i piedi, continua le sue indagini sull'orrenda strage avvenuta la sera prima in quel posto. Il custode del casolare aveva trovato i proprietari sgozzati e stesi in una pozza di sangue, orrendamente accoltellati da mani ignote. La crudeltà di una strage di mafia.

    Il prete corre, corre come un pazzo sulla sua bici, è proprio fuori di sè, neanche lui sa il perchè. Non vuole vedere nessuno. Salta giù dalla bici, la butta per terra, si stende sotto un fico ed inizia a cantare Back in Black degli AC DC. Non credeva di ricordarsela, ma una parola gli usciva dopo l'altra, come se la stesse sentendo da uno stereo vicino a lui. Passa ai Doors e ai Led Zeppelin, finchè non riesce a calmarsi con Lucio Battisti.

    Si è fatto buio, sono le 20 passate e ha dimenticato di dire la messa delle 19. Rinforca la bici un po' imbarazzato e ritorna in paese. Il suo abito nero è sporco di terra dappertutto e la bici non vuole camminare con la seconda. In paese non si fa che parlare del prete che ha detto la messa da ubriaco, è impazzito, da ubriaco, ha preso la bicicletta e se n'è andato. Dev'essere uscito di testa, poverino.

    Il capitano è riuscito a trovare subito il colpevole. Il custode non la contava giusta, e gridava di essere innocente, quindi a maggior ragione era colpevole. Ma al prete non importa nulla di tutto ciò. Entra in canonica, si siede al tavolo, dice la preghiera e mangia la sua cena. La perpetua lo sgrida ininterrottamente per dieci minuti buoni, lui non dice assolutamente nulla, mangia con tutti i vestiti sporchi, i capelli impastati, il naso da ubriaco. Sembra tutto meno che un prete. Finisce il pasto, liquida la perpetua dicendo "Davvero, oggi non è stata una buona giornata.", e va a coricarsi senza nemmeno togliersi le scarpe o farsi una doccia.

    Ogni tanto anche ai migliori capita di avere una giornata storta. Da che mondo è mondo, da cosa nasce cosa: quando i migliori hanno una giornata storta, tutti gli altri attorno a loro ne risentono. Alcuni si sentono tristi e persi, altri, gli invidiosi, soddisfatti, e se, per qualche motivo, a quella persona viene in mente di starsene un po' per fatti suoi, di fare di testa sua per una volta, perderà la sua autorevolezza e le persone che prima pendevano dalle sue labbra troveranno altri miti da seguire. Tutti ricorderanno quel giorno, il giorno in cui anche il prete ha perso le staffe.

    Intanto, anche il maresciallo va a letto, contento finalmente di essersi tolto quello strano sfizio di voler fare una strage e di passarla liscia. Che a Gubbio, a Gubbio accadono sempre cose strane.

    Tutta colpa del prete.

domenica 13 gennaio 2013

Io.

    Di lui si dicevano cose curiose. Una volta, dicevano, aveva visto una mosca poggiarsi sul banco vicino alla sua mano, e con un gesto fulmineo, dicevano, l'aveva presa e se l'era mangiata. Si mangiava anche le unghie, sicuramente più spesso delle mosche, ma era un figo. Un figo che mi stimava, e lo stimavo anche io.

    Quasi di comune accordo, ogni giorno io e lui facevamo a gara a chi se la tirasse di più, campando in aria le storie più assurde, sotto il mai verbalizzato accordo di credere incondizionatamente ad ogni storia che ci raccontavamo, seppure fosse un'evidentissima e colossale stronzata. Mi aveva raccontato, un giorno, che a casa sua aveva un sistema di allarme ultra tecnologico, con i sensori di movimento, di calore e anche i sensori speciali, quelli che sono sensibili ai respiri e alle scorregge.

    Per rispondere degnamente, gli raccontai dei tre pitbull affamati che gironzolavano nel fossato profondo 7 metri scavato nel pavimento del corridoio del mio appartamento al terzo piano. Quella volta, però, aveva deciso di venire meno all'accordo. Iniziò a chiedermi particolari, cosa gli dessi da mangiare, ai pitbull. La carne, ai pitbull piace la carne, però non troppa, altrimenti non sarebbero stati aggressivi. Come facevo ad arrivare in cucina a bere un sorso d'acqua se mi fossi svegliato di notte con la gola secca? Avevo costruito anche un sistema di assi di legno, per evitare di cadere nel fossato, anche se era più semplice portarsi la bottiglia vicino al letto. No, non avevo fatto tutto da solo, mi aveva aiutato anche papà. Finì le sue domande, senza dire niente altro, con la faccia di chi aveva qualche dubbio su quello che avevo raccontato. Da quel giorno non abbiamo avuto più nulla da raccontarci.

    Per un bambino è naturale inventare le storie, dire le bugie, giocare a far finta di crederci, abbandonarsi all'illusione che quello che sta sentendo è verissimo, e rispondere con altrettante storie campate in aria, respirando l'odore dei volti ammirati e creduloni dei propri compagni di giochi, il potere di essere creduti in tutto ciò che si dice.

    Si scopre il peso, la massa della personalità. Si scopre la possibilità di potersi chiamare in causa, di imporsi, basta inserirsi in un discorso, iniziarlo con la parola "Io" e inventare una storia abbastanza interessante per attirare l'attenzione altrui. Dopo una scoperta del genere, tutto il mondo diventa abbastanza piccolo per poterlo coprire con un'ombra sola.    

    Ci si ritrova in gruppo, sempre allo stesso modo, anno dopo anno, ognuno pronto ad aspettare il proprio turno. Si sta in silenzio, si ascolta parlare l'altro pensando "Ma quando finisce, quando tocca a me?", si aspetta il frammento di silenzio tra un discorso e l'altro per iniziare il proprio discorso con "Io", e farcire il resto di ogni cosa di cui si può farcire un discorso. Un'abitudine a cui si prende facilmente gusto.

    La sera di qualche giorno dopo Natale, mi sono visto con persone che non vedevo da tempo. Ogni volta è sempre bello rivedersi, soprattutto con chi si ha condiviso qualche anno della propria vita. Non tutti potranno andarti a genio, ma nel grande gruppo resisti per quelli a cui tieni davvero, come si è sempre fatto, come fanno tutti.

   Tra un racconto e l'altro, si ride e si scherza, con risate più o meno sguaiate, a cui mi lascio volentieri andare qualche volta. Quella piazza di solito si riempie poco, non solo perchè è molto grande, ma anche perchè, tradizionalmente, oltre ad essere un luogo storico, è un posto perfetto per fornicare. Ci si siede con la propria metà sugli scalini della chiesa e ci si scambia effusioni profane sotto l'occhio addormentato del palazzo del vescovo. Il palazzo pieno di preti, di suore, frati e novizi, resta immobile nei suoi principi, e non può dire nulla ormai. Il palazzo ha già fatto i suoi tempi, li lascia fare.

   E' bello come un ragazzo, per farsi bello agli occhi di una ragazza, si mostri nella sua forza unica e insuperabile, circondato dai suoi amici, di solito due o tre, che circondano il suo Io e gli puliscono la strada con i pantaloni consumati che foderano i due terzi delle suole delle loro scarpe, ridendo ad ogni stronzata che dice. Un simpatico teatrino che si ripete ogni volta, di cui ogni volta la ragazza finge di stupirsi. Tre sagome uscite da un film di De Sica che ripetono le stesse battute e una scimmietta che ride come una iena, indecisa se entrare o meno nella strana compagnia. Tanto alla fine si ritorna al palazzo del vescovo, in nome del sessantotto, e pure del sessantanove.

   Quella sera, il mio gruppo aveva interrotto una di queste compagnie, proprio al palazzo del vescovo. Stasera si recita a braccio, e si prende spunto da ogni cosa, anche da un gruppetto animato riunito in una rimpatriata. Si ride, si scherza, si gioca, si fa i coglioni tutti insieme, come nelle migliori assemblee di classe degli ultimi quindici anni. Si abbandona ogni maschera, ed ogni parola sprizza felicità, ogni risata urla al mondo la sincerità di un "Sono contento di rivederti."

  Il capocomico guarda sbigottito quelli che hanno osato uscire fuori dal loro copione, quelli sgarbati senza contegno che si lasciano andare alle risate sguaiate fuori da una pizzeria di paese, addirittura in mezzo alla strada. Raccoglie ogni pezzo del suo Io e dopo un respiro sbotta: "Cosa diavolo state facendo?".

   Lorsignori sono persone perbene, mai si lascerebbero andare a certe cose fuori da una pizzeria di paese, in mezzo alla strada, che si farebbe brutta figura, ci si prenderebbe per coglioni. Indicano e sghignazzano, e anche lei ride. Battono i loro piedi per terra, elemosinando attenzione per uno scontro personale, per dimostrare la loro forza e prendersela con il primo che passa.

   Sono tutti troppo impegnati, però, troppo felici per pensare a loro, per ascoltare altri Io, e il capocomico, ferito nell'orgoglio, si alza e fa un cenno agli altri, per cambiare zona. Abbraccia lei, per proteggerla dal focolaio di follia generalizzata, e con un colpo di coda sentenzia: "Siete proprio dei froci.", anche se nel mio gruppo c'erano solo ragazze e l'unico ragazzo ero io, che omosessuale non lo sono nemmeno.

   I quattro Io si trascinano via, contenti di aver vinto il loro premio giornaliero, di aver difeso la loro integrità e la loro normalità. Un vero Io non si lascia mai andare, un vero Io, quando è triste e vede gli altri felici, disprezza la loro felicità e la marchia come follia. Un vero Io non lascia mai vedere ciò che prova davvero, vive di conquista, circonda gli altri abbagliati da lui e  decide cosa è giusto e cosa è sbagliato. Gli altri concordano, gli altri applaudono e seguono il primo, cercano la sua approvazione. L'Io forte illumina gli altri, che vorrebbero diventare come lui, e se provano a sfidarlo sono sconfitti dalla sua forza travolgente.

   Tanto travolgente da convincerli che un pezzo di oro sia un pezzo di merda.