sabato 8 dicembre 2012

Supposta.

   Tutti sono d'accordo, non c'è bisogno neanche di parlarsi. Ognuno pensa ai fatti suoi, guardando ciò che vuole guardare, aspettando in silenzio che tocchi a lui. C'è chi freme, c'è chi sta per chiudere gli occhi, c'è chi ascolta musica orribile indossando cuffie da metalmeccanico, ma tutti, tutti quanti hanno nelle loro tasche dei biglietti non timbrati. Lo sanno, sanno bene che se entrasse il controllore farebbe affari d'oro, eppure nessuno sembra così spaventato all'idea. Evidentemente, i controllori non vengono pagati in base al numero di multe che fanno. Meno male.

    Non c'è posto e mi tocca stare in piedi. Agguanto il palo rosso ancora tiepido della mano di un passeggero appena sceso, vicino alla porta del bus, cerco con lo sguardo l'insegna della metropolitana. Non ho mai preso questa linea, sono da solo, ma per fortuna non è tardissimo e la zona è tranquilla. Le querce e i lecci scorrono dietro i finestrini a destra e a sinistra, coprendo le piccole luci adiacenti dei negozietti che nel sabato sera hanno la loro fortuna. Il ristorante cinese, il fioraio, la cioccolateria, il panificio con il forno abusivo che dalle 11 di sera fino al mattino sforna e vende cornetti alla crema a 20 centesimi l'uno.

    Un papà stanco guadagna la catarsi di un'intera settimana tenendo suo figlio sulle spalle e stando dietro a sua moglie che si ferma ad ogni vetrina per vedere ogni cosa esposta, anche il faretto che illumina il tutto, bruciando energia in onore del dio denaro. Sabato sera nei quartieri residenziali, con le lucine più brillanti e più colorate man mano che ci si avvicina al centro. Salgono sette ragazze seguite da un ragazzo, tutte in tiro per andare alla pista da pattinaggio. Beato tra le donne, oppure tanto sfigato da averne tante attorno e non averne nessuna.

    Il freddo penetra nel colletto del giubotto, arrestandosi al bordo del lupetto. Mani in tasca, mi stringo e scendo le scale. Un fiume di vite umane, arrivate a destinazione o pronte a partire, biglietto alla mano. Qui non si può fregare, che ci sono le telecamere, non c'è nemmeno bisogno del controllore. La macchina succhia il biglietto selvaggiamente, gracchia e lo vomita fuori sbloccando i tornelli per qualche secondo. Riprendo il mio biglietto, lo immergo in tasca e corro nel vagone in coda.

    Lascio che il sedile di plastica mi accolga, mentre il treno viaggia come una supposta nell'intestino dei tunnel della metropolitana. Qui non c'è più niente da dirsi. Ci si ritrova costretti nello stesso posto, senza avere nulla da guardare, nulla da fare se non aspettare e guardarsi a vicenda, mentre qualche televisorino cerca inutilmente di rompere il ghiaccio trasmettendo candid camera scelte a caso da Youtube. Ci si toglie dall'imbarazzo semplicemente facendo finta che l'imbarazzo non esista, facendo finta che quello di fianco non sia così grosso, che non puzzi di sudore acre, facendo finta che si sia appena lavato. Se proprio non funziona, allora facendo finta che in realtà sia l'orsetto dell'ammorbidente. Non tanto perchè è morbido e coccoloso, quanto perchè almeno l'orsetto dell'ammorbidente sta zitto.

    Una bellissima ragazza è seduta davanti a me. Ascolta musica con degli auricolari bianchi ed è un po' triste. Chissà a cosa pensa. Nella mia tranquillità, cerco il suo sguardo per abbozzarle un accenno di sorriso. Un sorriso sarebbe troppo, aumenterebbe l'imbarazzo. Basterebbe uno sguardo per cercare di dirle: "Ehi, Dio mio, su con la vita!", ma non vuole, non vuole proprio, vuole stare giù con la vita. Peggio per lei, anzi no, quel musetto triste la rende anche più carina.

    "Guarda, Cesare, non sai che settimana. Non ce la faccio proprio più, sto soffrendo troppo. I ragazzi volevano vedersi con gli amici a casa mia, e quello stronzo è stato capace di farmi storie anche per questo fatto...non lo voglio più vedere!"
   
   Entra nel vagone un tipo scalzo. Mostra al vento i polpacci olivastri sporchi di qualche pelo qua e là. Indossa un impermeabile sporco e passa davanti a tutti scuotendo la mano aperta. Ha uno zaino rattoppato sulle spalle, da cui spunta fuori la testa di un peluche di Pimpi sporco di qualcosa. Guarda il mondo con aria triste e si gira ogni vagone. Il copione è così trito e ritrito che non sorprende più nessuno. Sembra uscito fuori da un film di Gabriele Muccino. Ognuno ha i suoi guai, però, ognuno ha troppo da pensare per poter pensare anche a lui.

   Ogni volto si immerge nell'imbarazzo collettivo indossando la maschera triste dei propri guai, aspettando che il treno arrivi a destinazione. "No, Cesare, no. Tu non vuoi mai ascoltarmi, tutte le volte che ti chiamo fai sempre finta di niente, vuoi sempre chiudere lì...ed io mi sto sentendo male, che sono claustrofobica e tra poco vomito, mamma mia..."

   Un asiatico si regge ad un palo vicino alla porta del vagone. Ha gli occhi rossi e sembra che non sia in forma. Batte i minuti tirando su con il naso, finchè una folata di vento non lo fa starnutire in testa alla ragazza seduta vicino a lui e immersa nei sudoku. Fatto il lavoretto, esce lasciandosi alle spalle la ragazza che cerca approvazione guardandosi intorno. Aveva fatto qualcosa di schifoso quel tipo e con gli occhi diceva "Ma che maleducato, no?". Guarda anche me, ed io alzo le spalle rispondendo con gli occhi "Che ci puoi fare? Ormai è andato via.".

    "Mamma, mi sento male, Dio mio, Cesare mi sento male". Guardo la signora che parla al telefono con Cesare in persona e faccio per alzarmi per farla sedere. Mi vomita in faccia un "No, no, grazie, davvero, bene così." Scende e si porta dietro Cesare e il suo telefonino. Scende anche la ragazza triste.

    Sono lì e li guardo. Penso che i simpatici personaggi di quel simpatico vagone andranno via e non li vedrò mai più. Non chiederò mai alla ragazza triste di uscire, non saprò mai se il sudoku dell'altra era uscito, nè se l'asiatico le ha passato l'influenza. Non saprò mai se il ciccione si è lavato, nè se Cesare ha deciso davvero di chiudere con la tipa claustrofobica. Eppure, in fondo nessuno può ignorare l'altro. Non si può fare a meno di cercare con lo sguardo di sfogliare i guai di ognuno di loro.

   Sarà per questo che ci si sente in imbarazzo, in metropolitana. Si cerca in se stessi la soluzione ai propri problemi, e si cercano magari quelli degli altri, per vedere se sono uguali ai nostri. Il tutto, tra sguardi furtivi, curiosi, che cercano di non farsi vedere, non per malizia, magari solo per noia. Vorrebbero tutti sfogarsi, lasciare uscire il fiume in piena contenuto dalla diga del buonsenso e del sacro "non dire i fatti tuoi a nessuno".

   Dopo qualche minuto, ci sono quasi simpatici un po' tutti. Eppure andranno via da un momento all'altro, entreranno per sbaglio in qualche minuto della nostra vita e non si faranno vedere mai più, di punto in bianco. I destini di tutti si incontrano, e si allontanano in punta di piedi, senza far rumore, senza definire nulla.

    Ognuno siede di fronte all'altro aspettando che la propria vita prenda la piega giusta.

domenica 2 dicembre 2012

Merda.

 "Non la prendere alla leggera. Sarà un anno pessimo, non tanto per lo studio, anche se nei primi mesi non capirai davvero nulla, quanto per la solitudine. Troverai compagni con cui non riuscirai a trovarti d'accordo, e per trovare quelli davvero simili a te ci metterai molto tempo. La cosa peggiore del primo anno all'università è la solitudine.".

  Ormai sparano pallottole vere. Non c'è tempo per scherzare ed io ho iniziato a lavorare sin dalla prima settimana. Appunto su appunto, mi è capitato di chiedermi quanto potesse essermi utile ciò che stavo studiando. E pensavo che anche se fosse merda ciò che studiavo, anche se davvero fossero materie inutili, senza averle studiate non potrei diventare quello che vorrei. Se è merda che bisogna spalare, sarà meglio spalarla con il miglior entusiasmo possibile.

  La volontà. Arrivi a volere quanta più merda possibile, tutta insieme, così se arriva il peggio si può essere pronti. Ne voglio ancora, voglio tutto il peggio e lo voglio ora.

  Seguire le lezioni è molto semplice. Basta mettersi alle prime file, guardare spesso l'insegnante, farsi vedere, farsi vedere sempre e prendere appunti. I primi giorni è stancante, ma se lo si vuole davvero si può anche superare i propri limiti. Ne vuoi di più, vuoi ancora più merda addosso. E la merda me la cerco, studio a pomeriggio, e la sera mi riposo. E se non mi bastano tre ore di riposo, le tolgo via al sonno. Tanto mi sveglio presto comunque.

  Non ero mai nemmeno stato in biblioteca. Ed è un bel compromesso, la biblioteca. Uscire da lezione, sedersi lì, stare zitto a studiare per 4 ore di fila, uscire e spassarsela a casa, trovarsi con i colleghi per giocare a carte, vedere un film, senza più toccare una penna fino al mattino dopo. La soddisfazione di andare a letto all'una dopo una sera di riposo assoluto con la consapevolezza di aver fatto abbastanza. Roba che invidierebbe qualunque liceale brufoloso.

  Il giorno dopo a lezione, dopo lezione biblioteca e a letto all'una. Arriva un giorno che non capisci un cazzo. La lezione è lenta. Giri su te stesso come un palo di ferro, sul tuo sedile duro di compensato lucidato. La senti, la testa che gira, non ce la fai, meno male che c'è il registratore. Si, fai si, sempre si con la testa. Quanta polvere c'è per terra a casa. Ha ragione, ha perfettamente ragione, non c'è niente di più giusto di quello che sta dicendo. Stasera ravioli. E certo, certo, giusto così.

  Ti guardi intorno e scopri che non sei l'unico. Vedi altri individui trottolare sul posto, annuendo, immersi tra il profumo di ravioli e le leggi dei gas. I più sfacciati si coricano sulla felpa e vanno tra i campi elisi. Io voglio altra merda. Voglio resistere. Non voglio proprio mollare. Benedetto quarto d'ora, il caffè, ci vuole il caffè.

  Il rumore del bar è assordante e la fila sempre così grande. Parli di cazzate con il collega e la stanchezza scema già. Macchiato, senza zucchero. Dio, che caffè. La senti nelle ossa, la caffeina, nuovo come mamma mi ha fatto. Anatomia. Materia nuova, e il professore regge a parlare per due ore consecutive. Non dà retta agli idioti che fanno battute idiote, ai sognatori usciti di casa con il pigiama. Lui parla, resistente come il chirurgo, anche perchè è proprio un chirurgo. Non sono due ore di fronte a quattrocento mocciosi a stancarlo, no di certo.

  Il chirurgo parla e i mocciosi abioccano spesso, qualcuno per volontà e qualcun altro anche per sbaglio. Cerco di seguire, eppure mi rendo conto delle assenze di qualche frazione di secondo. Assenze concrete, pezzi di frase che mancano. La scapola è un piatto posteriore spinoso, chiaramente un'ala. Meno male che sto registrando.

   Finita la lezione, pranzo e caffè. E l'occhio stanco cade sul frigo. La lattina lunga, la scritta rossa. Due euro e cinquanta. Frizzante, sa di benzina ed è veramente potente. Biblioteca e due capitoli in 3 ore, tutti d'un tiro, senza alzare la testa dal libro. Il giorno dopo ci riprovo, lattina e Art Blakey che sbatte sui timpani. Una macchina da studio, 4 ore di immersione e poi la sera riposo. Mai così pieno, mai così a prova di proiettile.

   Il quarto giorno non reggevo. Lattina e così tanta stanchezza da fare la guerra con l'effetto della lattina. La mano immersa nella mia frangia troppo poco ribelle regge la mia testa. Esattamente a metà, tra voglia di dormire e il desiderio di tenere aperti gli occhietti, altrimenti sbatto il naso sull'atlante della biblioteca. Abiocco in biblioteca. Sonny Rollins mi riporta in vita dopo 5 minuti e studio come un dannato. Basta lattine, basta per un po'.

   La caffeina è una droga legale. E' la droga meno pericolosa di tutte perchè quando ne assumi troppa te ne accorgi e smetti da solo. Non puoi diventare dipendente dalla caffeina, al limite puoi assuefarti. E se voglio che la lattina funzioni, devo fare più piano. Anche stanotte resto sveglio abbastanza per vedere sull'orologio le 2:13. Non è colpa mia, o forse si. La collega mi fa "Ehi, devi smetterla con queste lattine, fanno malissimo.". Io rido. 


   Nessuno sembra capirlo, ma la sera dopo lo studio ne vuoi ancora. Gli altri dormono e tu non vuoi dormire. Perchè dormire, che senso ha dormire quando si ha ancora forza? Che senso ha mangiarsi la notte quando si ha abbastanza forza per viverla?

   A volte hai bisogno di stare con quello che può capire tutto quello che fai. A volte hai la fortuna di non averlo troppo lontano. Così, una sera, zitto zitto, te ne stai con lui, parlate tra qualcosa di stimolante e una partita a PES, ci si sfoga, lui lo sa e tu lo sai. Parlate, il sonno non importa più a nessuno, che te ne fai del sonno quando hai abbastanza forza per volere altra merda?

   Insieme a lui, un pugno di persone con cui parlare liberamente, ché anche loro parlano liberamente con te, che ce le vorresti pure più vicine per giocare a PES o fare qualunque cosa pur di farla insieme a loro. E in quei momenti, o li trovi, oppure è meglio che te ne stai da solo.

   La passeggiata catartica. Felpone e via da solo. Mani in tasca. Non me ne frega niente se mi prendono per pazzo. Sto solo camminando, mi sto solo riposando. La pioggerella fresca batte sul viso e sul cappuccio, mentre la notte fresca infarcisce le narici golose. "Ma ti ho visto l'altro giorno, te ne andavi tutto da solo...ma che facevi a quell'ora?". Non capisco perchè a tutti fa così tanta paura la solitudine. Vivere da soli è orribile, ma a volte il momento da soli, il quarto d'ora con te e nessun altro è necessario. La lattina ha finito il suo effetto e per oggi basta con la merda.

   Il cielo è un po' coperto, piove, eppure le nuvole non nascondono le mutande del povero Orione e la sua cintura. Guardo il cielo. Un palloncino rosso sale sempre più in alto, dritto contro le nuvole.

    Ho troppa voglia di vivere per avere più tempo per dormire.

martedì 13 novembre 2012

Insegnanti.

   L'estate non ha scherzato nemmeno quest'anno, non ha risparmiato proprio nessuno. Nemmeno quegli stronzetti freschi freschi di liceo non ancora pronti per quello che li stava aspettando. Di quanto fossi pronto non mi importava in quel momento, quello che dovevo fare lo avevo già fatto. Ero lì giusto per ultimare le pratiche, per diventare ufficialmente la più giovane recluta del corso.

    Vestito di un sottile abito di sudore bollente e di una magliettina di cotone senza maniche, aspettavo il mio turno in silenzio. Il portalistini nero mi tagliuzzava le dita con il bordo di plastica dura, ma in quel momento non mi importava neanche di quello. Volevo solo sbrigarmi, solo sbrigarmi e prendere il treno delle sei meno un quarto, solo il treno per tornare a casa l'ultima volta e salutare per sempre la mia infanzia.

    Avevo tutto quanto con me, ma proprio in quel momento, proprio in quell'istante mi ero ricordato di un particolare che avevo proprio trascurato. Quel documento, dovevo fotocopiarlo, dovevo consegnare la fotocopia, non l'originale.

    Già lo vedevo, l'originale, sparire in qualche archivio e finire tra trent'anni nelle mani di un bambino, sotto i colpi di un pastello rosso sangue coagulato tra le mani sudate del figlio di un impiegato di quell'ufficio.

    Quella fotocopiatrice buttata nel corridoio sotto l'alito del condizionatore era troppo invitante. Non c'era nessuno a vigilare, e in fondo si trattava di un ufficio pubblico. Con la naturalezza del ladruncolo, inserisco il foglio sullo scanner e premo il bottoncino verde. La fotocopiatrice sputa fuori il foglio caldo sulle mie mani, che lo prendono con sollievo, prima di essere strappato via dalle mani tozze di un'altra persona. Un giovane, biondo, basso e grosso, dietro i suoi occhiali di osso mi biascica che le fotocopie lì non si possono fare. Le sue dita masticano il documento e lo vomitano in un cestino vuoto.

   Lo guardo con gli occhi di chi vorrebbe solo una fotocopia, solo quella fotocopia, solo un fogliettino macchiato di toner. Glielo chiedo di nuovo, senza enfasi. Lui mi guarda come se volesse, in fondo, accontentarmi, prima che qualcosa in lui gli chiudesse le palpebre e gli facesse balbettare attraverso il suo apparecchio metallico che "Non si fanno...qui...le...foto...copie.". Lo ringrazio di cuore. Mi guarda un po' spiazzato, con l'aria di chi non si aspettava una risposta del genere, poi si siede alla sua poltrona Ikea, acciambellato come un cane contento dell'osso che ha appena conquistato, ma che lo annusa dubbioso che ci sia rimasto ancora qualcosa da spolpare. Dopodichè torna a giocare al solitario su un tristissimo computer gracchiante.

    Andai, sconfitto, ad arricchire di 10 centesimi le casse di una legatoria, per poi tornare all'ufficio con la fotocopia. Lo ritrovo che ha quasi finito il solitario. Mi guarda, lo saluto con un cenno e gli mostro la fotocopia. Mi guarda quasi spaventato, per poi ritrovare quel briciolo di autorità che gli conferiva la poltrona Ikea e dirmi che "Non si fanno le fotocopie qui.".

   Le manine del bambino coloravano la vecchia ricevuta, con il pastello tra le mani sudate. La sua fantasia gli dettava un sole spigoloso sopra un umanoide che poggia i piedi sul nulla, alto come un albero, vicino ad una casa alta come l'umanoide, anch'essa poggiata sul nulla.

    Uffici pubblici. Università pubblica. Tutto così affollato, tanto affollato da farmi ritrovare ogni giorno alle 7 e 25 di fronte alla porta dell'aula in cui le lezioni iniziano alle 9. Tutto per trovare un posto in seconda fila e seguire la lezione su un sedile duro di compensato verniciato piuttosto che sulle scale foderate di plastica dal colore degli m & m's scaduti. A me non dispiace affatto alzarmi alle 6, uscire alle 7 meno 5, fare colazione al bar e farmi un quarto d'ora di strada a piedi per arrivare in facoltà prima di tutti. Arrivano anche gli altri dopo, ma quei pochi minuti di solitudine sonnecchiosa, seduto su una panchina di metallo ad ascoltare musica e a leggere il quotidiano gratuito sotto il venticello fresco del mattino, creano ogni giorno un piccolo miracolo impareggiabile.

    L'attesa è presto premiata. Una donnina cannone con un pastrano viola dondola verso le 7 e 40 lungo i corridoi, aprendo con le chiavi tintinnanti prima un'aula e poi l'altra. Le matricole sono sempre le più mattiniere, le matricole sono pronte a tutto, tutto per la gavetta. Al pastrano viola questo fatto non piace, e agita il dito facendo domande autoritarie a destra e a sinistra mentre apre la porta dell'aula. Non si deve venire così presto, dice, all'università, perchè l'università non apre mai presto. L'università apre alle 9, non apre alle 7 e 40, e da domani, da domani aprirà alle 9, alla faccia nostra e alla faccia vostra, da domani apre alle 9. E se non lo avete capito, domani ce lo farà vedere, il pastrano viola, come apre alle 9, l'università. 

   Non aveva capito, evidentemente, che non basta questo a scoraggiare una matricola. E il mattino dopo, sotto gli stessi occhi del giorno prima, il pastrano viola apre l'aula alle 7 e 40. "Tanto il problema dell'affollamento non lo risolviamo comunque.". Va via, con la testa alta e lo sguardo fisso di chi ha perso, di chi voleva far paura ma non ce l'ha fatta, di chi non può fare ciò che vuole, anche se vorrebbe.

    Il disegnino è quasi finito. Sulla mano gonfia dell'umanoide è poggiato un uccello di cartone. Il suo sorriso isterico e i suoi occhi satanici spaccano la retina. Tutto il rosso della rappresentazione fa sentire più caldo di quanto Dio non ne stia già mandando. Ultimato il progetto, il piccolo sbatte il pastello, afferra il disegno e corre a farlo vedere a tutti nell'altra stanza. Lo regala alle mani della mamma, che lo accolgono con le unghie smaltate di rosso. L'orgoglio per il piccolo è insuperabile, viaggia di bocca in bocca, di occhio in occhio, il prodigio del bambino stupisce proprio tutti.

   Le mani applaudono senza più contegno. Il piccolo Matisse si gode il momento, e quando tutte le mani sono ferme, nel brevissimo istante di silenzio, lo zio chiede al bambino cosa vuole fare da grande. Il bambino dondola sui talloni e sghignazza guardandosi in giro. Alza la testa e annuncia al mondo che da grande vuole "fottere tutti".

    I parenti ridono sorpresi. Ridono tutti, ride anche Matisse. Ride il nonno, anche se non ha più denti per ridere. Ride la mamma, ride il papà, "ma quanto sei sciocchino!", gli dicono, mentre sgranocchia una brioscina.

   Anche la maestra, un giorno, tira fuori l'idea di chiedere ai piccoli cosa vogliono fare da grandi. E il nostro Matisse, ridendo, scrive del suo progetto di fottere tutti. La maestra non ride affatto e convoca i genitori. Presenta loro il compitino e gli chiede spiegazioni. Il papà cambiava colore e la mamma si spaventava molto. Il papà iniziava già a gridare, a imprecare, a bestemmiare, rompendo il silenzio della scuola. I bambini sbirciano, sbircia anche Matisse che mostra ai suoi amici com'è forte il suo papà, che parla di una cosa strana, di una "denuncia", di una "querela", perchè la maestra non sa mica chi è, il papà di Matisse. "Ma come si permette lei? Come si permette di insegnarmi come fare il papà? Quelli come lei dovrebbero raccogliere pomodori!"

   Tutta colpa degli insegnanti: dovrebbero licenziarli tutti.

sabato 27 ottobre 2012

Foche.

    Mi ero messo la camicia nuova nuova. Non l'avevo mai usata, ma era già la mia preferita. Faceva fresco e avevo i jeans buoni. L'aria delle 22 e 30 era inebriante nel parcheggio, tra alberi di specie ignote che sovrastavano macchine di tutti i tipi. C'era la city car, la cinquecento, la minicar, la macchina supermodificata del fico di turno che morirebbe di inferiorità se non riuscisse a farsi notare. Davanti a me, gruppetti di persone si dirigevano verso l'ingresso, come piccoli plotoni in marcia disordinata verso qualcosa della cui natura mi ero già fatto una mezza idea.

    Il ritmo fracassante della musica si sentiva molto forte già da lontano. La gente intorno sorseggiava cocktail parlando di figaggine con un accento molto marcato. Ritrovo i miei compagni di serata e formo anche il mio gruppo. Ci dirigiamo verso un capannello di persone che circondava qualcosa che diffondeva una bella luce arancione.

    Era un furgoncino Volkswagen, di quelli che qualche decennio fa usavano gli hippie per ritrovarsi nelle radure per farsi di LSD e marijuana. Era verniciato di bianco e arancione. Gli interni erano di una più o meno gradevole fantasia zebrata. Un signore faceva entrare gruppetti di persone a farsi delle foto in quello che chiamavano "furgoncino hippie". Subito dopo il mio gruppetto, entrarono 3 ragazzi a farsi una foto. Era buio pesto e indossavano tutti e tre degli occhiali da sole, esibendo le loro lingue e i loro capi firmati all'obiettivo. Guardando la scena, la confrontavo con qualche fotogramma dei video di Woodstock, chiedendomi quanto di hippie fosse rimasto lì dentro, in quel furgoncino hippie. Probabilmente nemmeno il radiatore. Succede, in fondo. Gli anni passano e cambia anche il modo e lo stile di divertirsi.

    Non ero mai stato ad una festa di questo genere. Mi guardavo intorno. Erano tutti quanti vestiti nel meglio delle loro possibilità, ad esibire le loro pose migliori per mostrare i lati migliori di sè. Ogni angolo bruciava di bagliori di autostima, tra facce divertite, impressionate, stralunate che non vedevano l'ora di entrare a fare casino. In fondo ero anche io molto impaziente, volevo divertirmi anche io.

    Lo scimmione all'entrata iniziò a far entrare piccoli gruppi di persone volta per volta. Quelli con la prevendita avevano la precedenza, e guardacaso anche io avevo la prevendita. Ero lì, ammassato tra la spalla destra di un ragazzone che profumava di sigaro e un ragazzino con gli ormoni a mille che addossava le sue mani sulla mia schiena. Di colpo iniziai a sentire qualche "oh!" di sdegno che scorreva di bocca in bocca dalla coda del gruppo verso il centro. Insieme allo sdegno, arrivò dritto dritto sulla mia spalla uno spintone che mi fece precipitare sul braccio sinistro di una ragazza. Le faccio male, mi guarda scocciata e un po' spaventata, io le sorrido e le dico che non è colpa mia. Sorride anche lei.

    Finalmente entro anche io. Tra tutto il gruppo, con lui mi trovo molto bene. Abbiamo gli stessi gusti e un carattere simile, solo che lui ci sa fare un po' più di me. Per stasera mi affido a lui. Non avevo mai fatto niente del genere, ero lì quasi solo per curiosità e senza troppa ambizione. Mi tranquillizza e mi dice che è molto semplice, basta trovare un gruppo di ragazze carine, andare a ballare vicino a loro e cercare di attaccare bottone. Se ci stanno, continuare a parlare, altrimenti si passa ad altro. Non mi aveva mai ispirato come cosa, tuttavia, più che bisognoso, ero solo molto curioso.

    Inizio a guardarmi intorno insieme al mio compagno. Troviamo un gruppo ed iniziamo a ballare. Lui è molto più scatenato di me, probabilmente perchè prima ha bevuto un po'. Io lo guardo molto divertito e dò anche io il meglio di me, senza alcool però. Le prime rifiutano, anche le seconde e le terze. Un po' stanchi, decidiamo di andare in bagno.

   Il corridoio lungo pullulava di gente stanca. Alcuni erano collassati su delle sedie mentre sbavavano sui loro vestiti in preda a qualche bicchiere di troppo, trattenuti dai loro amici prima che potessero fare qualche cazzata. Altri semplicemente riposavano e chiaccheravano del più e del meno. Il bagno aveva tre cabine, di cui una fuori uso, per cui la fila era lunghissima. Io non dovevo fare nulla, così stavo lì addossato al muro ad aspettare il mio amico.

   Guardai la gente in fila. Un ragazzo elegantissimo aspettava chattando con il suo smartphone su Facebook. Da una cabina uscì un tipo un po' più avanti con gli anni. Esibiva il petto villoso con una camicia hawaiana blu notte e un paio di baffi a manubrio. Era molto sicuro di sè. Probabilmente voleva risultare sexy, in realtà somigliava solo ad Asterix. Un altro, appena uscito dalla cabina, si lavava le mani guardando allo specchio se i suoi capelli fossero a posto. Notando un'imperfezione, leccò le basette con le dita bagnate e si sistemò il colletto.

   "Basta così." sento un tipo sentenziare dietro di me. Si gira verso il muro sopra il cestino della spazzatura, tira giù la zip e libera senza troppa vergogna la sua vescica. Il mio amico aveva appena finito, lasciai insieme a lui la stanza.

   Ritroviamo il gruppo da cui mi ero staccato. Le ragazze con cui ero arrivato lì sedevano annoiate con le facce leggermente sconvolte. Lo sguardo di una di loro sguardo non celava una sbavatura di sdegno gentile. Una di loro era molto più tranquilla, invece. I tacchi altissimi, uno splendido tailleur nero e il collo slanciato, rivolto verso un punto del soffitto in alto a destra. Fumava una sigaretta mostrando una fascinosa aria di indifferenza. Non ero ancora riuscito a concludere nulla, così, un po' incuriosito, mi viene voglia di farle una domanda, soltanto per vedere come reagisce.

   Distolgo la sfinge dalla sua interessante visione chiamandola con il suo nome. Si rivolge a me girando piano la testa, gli occhi semichiusi. "Secondo te sono fico?". Dà un tiro intenso senza passione alla sua sigaretta quasi finita, e con la stessa freddezza sfuma sul mio viso un "No.". Scoppio a ridere senza contegno.

   Erano tutti lì per lo stesso motivo. Erano tutti lì, spinti dalla stessa motivazione, dalla stessa cosa, le ragazze come i ragazzi. Guardavo un po' tutti e non ci voleva troppo ad intuire chi questo l'aveva capito e chi meno. Occhi che cercavano, occhi che puntavano, occhi che miravano, occhi che si guardavano intorno inebriati e incuriositi, occhi che si guardavano intorno confusi malcelando un po' di paura. Nell'aria volava un misto di profumi vari, sudore e aliti farciti di alcool che galleggiava tra i denti, tra gli stomaci, residui di cocktail e di cena di qualche ora prima che si scambiavano di bocca in bocca con qualche schiocco umido.

   Torniamo fuori a ballare insieme a loro. Un ragazzo punta una delle mie compagne. Lei è evidentemente disinteressata, così mi metto davanti a lei e faccio finta di averla puntata io, giusto per toglierglielo di torno. Mi sentii soddisfatto vedendola un po' più rilassata. Continuo a coprirla finchè, dopo 5 o 6 approcci deviati dalle mie spalle, il tipo mi mette una mano sulla spalla e mi dice all'orecchio che a questo punto dovrei "farle sentire la presenza".

   Gli dissi di sì fingendo tutto l'entusiasmo che potessi tirar fuori, dissi alla mia compagna quello che mi aveva detto e la accompagnai un po' più in disparte. Ci sedemmo uno di fianco all'altro. La guardai negli occhi e ci scambiammo il disagio di trovarci in un posto che non piaceva a nessuno dei due. Per tranquillizzarla un po', le dissi che in quel posto ero sicuramente la persona più innocua. Mi diede ragione sorridendo.

   Seduto sulla ringhiera guardavo tutti scatenarsi. Li guardavo tutti, ognuno sistemato al meglio, ognuno che cercava di corteggiare qualcun altro, l'altro che ci stava, persone che si baciavano, ognuno di loro girava come un tubetto di maionese che cercava di spruzzare quanto più in alto possibile la propria presenza, ognuno che cercava di diventare il centro di tutti gli altri.

   Diedi un respiro profondo e l'odore fortissimo di sudore acre emanato da tutta quella gente mi riempì i polmoni.

   Ho visto un documentario sulle foche. Le foche, in un periodo dell'anno, si raggruppano in massa sulle spiagge per accoppiarsi. In quel momento mi venne in mente una scena del documentario, una ripresa aerea della spiaggia piena zeppa di foche in calore, tutte ad ingropparsi, una sull'altra, emettendo guaiti e versi di piacere, inebriate dai feromoni e dalla necessità di continuare la specie. Quando vidi quella scena la prima volta, pensai "Chissà che puzza devono fare tutte quelle foche messe insieme".

   Sicuramente una forte puzza di sudore acre.

lunedì 15 ottobre 2012

Me la ridevo.

   Ho sempre creduto che nella vita la cosa più importante sia avere un motivo. Qualunque cosa si faccia, l'importante è farla secondo una motivazione valida e inequivocabile. Non avrei mai pensato di avere una motivazione anche per questo, non mi aveva mai attratto prima d'ora, fatto sta che un giorno mi è venuta giù dal cielo così, senza che me l'aspettassi minimamente.

   -Chi molla per ultimo vince!-. Non avrei mai pensato che avrei potuto un giorno trovarmi a quel tavolo. O forse, forse in fondo si. Senza troppo coraggio ho partecipato anche io. Tirai febbrilmente il dado la prima volta, pensando all'effetto che avrebbe fatto. Non avevo mai provato nulla del genere, era la mia prima volta ed ero già allegro. Non mi toccò nulla al primo turno, e nemmeno al secondo. Dopo due giri, gli altri si accorsero che mi era andata bene fino a quel momento, così iniziarono a farmela pagare. C'era già chi aveva gli occhi lucidi, me ne fecero buttare giù due interi, mentre me la ridevo.

   -Oh, ehi, chiaramente, chiaramente se non ce la fate più alzatevi e andatevene. Non ci sono eroi qui.-. Io me la ridevo e iniziavo a sentire un po' la testa girare. Di fianco a me era accesa la tv. Mandavano delle canzoni più o meno interessanti, tra cui anche un grande successo dei REM. Sapevo il testo a memoria, e non potevo, non potevo davvero non cantarla. Oltretutto adoro cantare, e adoro ancora di più cantare quando sono allegro. Gli altri, ancora intatti, mi avevano preso per strafatto e cercavano di stuzzicarmi, mentre me la ridevo, come si fa con chi è un po' allegro, senza malizia. Non volevo fermarmi, cantavo con tutto il fiato che avevo in gola, cantavo anche l'assolo. Mi sono fermato solo quando ho iniziato a sudare un po'. Capivo perfettamente che non avrei retto ancora per troppo, ma ovviamente mi sarei alzato di sicuro prima di star male sul serio.

   La testa girava un po', la sentivo già un po' più leggera. Tirai il dado, mentre me la ridevo. Non mi ero mai sentito così, sebbene non fosse troppo diverso da quando sono particolarmente contento senza nessun aiutino. Ad un certo punto lasciai, proprio quando avevo ottenuto l'effetto che volevo provare e che non avevo mai provato.

   Niente, niente di particolare, solo un po' di leggerezza di sguardo. Mi guardavo intorno mentre sentivo gli occhi sfuggire da una parte e dall'altra. Mi adagiai sul divano buttando una mano in un pacco di patatine, mentre me la ridevo. Iniziai a parlare con un ragazzo seduto di fianco a me. Gli chiesi se si notava, mi rispose di si. -Hai gli occhi persi.-. Era vero. Mi sentivo semplicemente fluido. Iniziai a parlare con lui del più e del meno, di musica e di tante altre cose che fossero sufficienti a fargli capire che la testa mi accompagnava, mentre me la ridevo. Mi sembrava sufficientemente convinto di ciò e questo mi lasciò soddisfatto. E' bello mantenere comunque il controllo, provare qualcosa di nuovo fino al punto giusto, senza esagerare troppo. Stavo bene.

   Entrò anche lei in casa. Viene dalle mie parti, abitiamo tutti lì. Dietro i suoi occhiali neri studiò un po' la situazione, guardando quelli ancora in gioco sghignazzare senza pensieri, chi più e chi meno intero. Mi chiedevo come facessero alcuni di loro a non dare il minimo segno di cedimento. Pensavo e me la ridevo. Il suo sguardo incuriosito indagò anche me. Mi guardava con gli occhi di chi ne sapeva, cercando di capire a che punto fossi, con l'occhio indiscreto di chi sta bene e vuole capire quanto chi ha di fronte ci sta con la testa. Io la facevo fare, non avevo nulla da nascondere e cercai di farlo capire anche a lei, più che altro per soddisfazione personale. Questa volta però devo averci messo un po' troppo entusiasmo, fatto sta che non mi sembrava convinta, nemmeno quando avevo fatto l'asse d'equilibrio.

   Mi era uscito un po' storto, ma in fondo l'asse d'equilibrio esce storto a tutti, non è una giustificazione valida. Me la ridevo e, subito dopo essermi rimesso in posizione naturale, iniziò a girarmi un po' più forte la testa. Non avevo toccato altro, però l'asse d'equilibrio mi aveva particolarmente stancato. Fu la conferma che non ero pienamente razionale, ma il fatto che me ne rendessi conto era comunque positivo. Lei mi guardò un po' di meno, con l'aria di chi aveva già inquadrato perfettamente la situazione. Non sembravo preoccuparla più di tanto nel mio stato, e questo mi faceva sentire più rilassato. Ero uno di quelli che stava meglio, seduto quasi per caso tra quelli che non avevano toccato nulla, i quali guardavano il tavolo divertiti. Il mio sguardo fluttuava tra gli uni e gli altri, indifferentemente me la ridevo.

   Arrivarono le altre per andare alla festa a qualche metro da lì. Mi sembravano un po' spaventate, giustamente. Scrutavano anche loro gli sguardi di tutti, anche il mio. Questa volta  sembravo averle convinte, anche perchè dissi subito la verità. -E' vero, ho esagerato giusto un po', ma datemi cinque minuti per farmi uno shampoo e starò molto meglio.-.

   L'aria freschissima. Un peccato non correre. Correre alle undici e mezza, un po'con il fiatone, una canzone in bocca, lo sguardo fluido e la cintura di Orione in cielo, mentre me la ridevo. L'acqua calda, il primo sapone che capita, buon odore di more e frutti rossi, mentre me la ridevo. Il phon in faccia, due schiaffetti ed è tutto apposto, la testa gira un po' meno. L'entusiasmo non si perde, però, anche perchè ero io stesso a volerlo mantenere intatto. Non era per fingere, ero davvero, davvero entusiasta. Iniziai a ballare con gli altri che mi aspettavano, sebbene ballare non mi piaccia più di tanto, poi la testa ricominciò a girare.

   Di nuovo aria fresca, ma stavolta meno entusiasmo. La testa non smette di girare e tornano in mente tante piccole preoccupazioni. Il peggio non è tanto smettere di pensare, trovare una distrazione. Il peggio è il termine della distrazione, il ritorno alla vita vera. E torna tutto insieme. Tante piccole cose di poca importanza, tante cose che ti erano sfuggite per poco tempo, ritornano tutte insieme e ti cadono sulle spalle in un batter d'occhio. Una piuma è leggera, ma tante piume sono pesanti.

   Al diavolo la musica, adesso voglio stare un po'con me. Te ne vai tra i tigli a passeggiare. Non si può esser seri quando si ha 17 anni. E di anni non ne ho più 17. Era questa la mia motivazione. Non aver più 17 anni. Aver chiuso, chiuso finalmente una fase e aver modo di cominciarne una nuova. Ogni morto era ormai sepolto, ogni cosa al suo posto, finalmente, lontano da ciò che mi stava stretto. Finalmente a fare ciò che mi piace fare, vivere per un'aspirazione e mettere a frutto tutto ciò che ho imparato. Non rinnegare mai il passato, nè tutto ciò che di buono ha dato, ma prendere a calci quello che non ti è sceso, le amicizie andate, tutte le piccole sconfitte, le piccole grandi umiliazioni, le cazzatelle adolescenziali, me la ridevo malgrado quello. Avevo scelto di farlo per quello, era quella la mia motivazione, chiudere in una bella risata fluida e frizzante. Potevano capirmi tutti, nessun grande problema, niente di tragico, eppure quella sera cercavo di non farmi capire da nessuno.

   Quando lo sforzo diventò troppo forte e quando mi resi conto di aver tardato tanto, tornai indietro. Mi cercavano e mi ero allontanato un po' troppo. Non mentii, mi sentivo un po' in colpa e mi faceva male la testa un po' per tutto. Mi fecero compagnia per tutta la notte, con lo sguardo di chi si è preoccupato di chi, in fondo, non se l'aspettava, o di chi non ha capito cosa mi avesse spinto. Un po' intorpidito, cercai di farli sorridere. Era tutto apposto, tutto sotto controllo, solo l'ultima parte mi era un po' sfuggita di mano, ma non stavo malissimo in fondo. Qualche ora e sarei tornato quello di prima, tutto bene. 

   In fondo me la ridevo, malgrado tutto.

lunedì 8 ottobre 2012

Nemici.


     Sin da bambino, il futuro mi ha sempre affascinato. Mi divertivo qualche volta a pensare a ciò che sarei potuto essere in un futuro non troppo lontano, a quanto di me sarebbe potuto cambiare e se, una volta che quel futuro sarebbe divenuto presente, mi sarei ricordato di quello che avevo immaginato prima. Così, nel conservare le cose, alcune cose in particolare, mi divertivo a lasciare tracce di me al me stesso del futuro. Erano piccoli segni di riconoscimento su alcuni degli oggetti che avrei conservato gelosamente: quaderni, libri, peluche, dizionari, carte da gioco, qualunque cosa che, se in un futuro avessi ripreso con mano, mi avrebbe fatto ricordare momenti preziosi del periodo in cui l’avevo lasciata. Era come un gioco, ed in fondo lo è anche adesso.

     Quando si è piccoli non si riesce ad immaginare la vera dimensione di un addio. Lo si percepisce sempre come un “a più tardi”, e questo piccolo gioco con me stesso me lo ha fatto capire. Ogni volta che ritrovavo quelle tracce di me stesso, sorridevo pensando a quanto potesse cambiare tra un segno e l’altro, quante speranze potessero diventare realtà e quante altre restare solo sogni di carta, ma ogni periodo restava sempre una sorta di breve intermezzo tra un ricordo e l’altro, mai un baratro troppo grande. Tutto questo può anche funzionare, almeno finchè non si scopre l’addio.

     Mia madre continuava a ricordarmi che avrei dovuto fare pulizie sul serio nella mia stanza. Ormai i libri del liceo sono inservibili, è giusto lasciare spazio ad altro. Così, arriva il momento in cui si raccoglie tutto ciò che si era poggiato, per poterlo conservare una volta per tutte. Arriva l’addio.

     Il pavimento era cosparso dei miei diciotto anni in cinquemila pezzi di un puzzle di cielo azzurro. Con la freddezza di un boia, bisogna scegliere cosa tenere e cosa buttare via per sempre.  C’è sempre tempo per un sorriso, però. Gli appunti di chimica, di italiano, di latino, i libri scarabocchiati, i libri completamente intatti, gli stronzetti sorridenti dei libri di inglese con i baffi e le borchie scarabocchiate con la penna, il disegno di un pene con tanto di scroto incredibilmente realistico frutto della disperazione sulla mappa concettuale di Aristotele, i quaderni di matematica mai del tutto finiti, i quaderni di religione magri a causa dei troppi fogli strappati dalla metà, senza dubbio mi sono divertito a trovare tutto questo. Finchè non toccai quel quaderno di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza. Quel quaderno che non doveva essere letto, quei pensieri che avevo cacciato molto tempo fa, quello che non avrei mai voluto trovare mai prima dei capelli bianchi.

     Non si dimentica il passato, ma ci sono alcune cose che è meglio non ricordare troppo vivamente. Il passato con cui si ha chiuso molto tempo prima, il passato che non si vuole più incontrare, viene fuori così, in un pigro giovedì pomeriggio, tra una risata e l’altra. Non riuscivo a smettere di sfogliarlo, brivido dopo brivido, era più forte di me. Finchè non l’ho strappato in un solo colpo, senza fiatare. E’ un tantino difficile strappare un quaderno, ma la forza di lasciarsi qualcosa alle spalle e per sempre, a volte ti fa fare cose che non ti credevi capace di fare.

     Avevo voglia di un bel fuoco. Il musetto dello scoiattolo sulla copertina del quaderno strappato sfrigolava e spariva in una nuvoletta pungente di diossina, i fogli ancora uniti si aprivano in briciole di cenere, alcuni di quelli staccati facevano qualche molle capriola, finalmente un po’ di sollievo. Avevo davvero affrontato quel resto andato di me, salutato un passato che non volevo più incontrare. “Mai più”, le uniche parole che il fuoco mi stampava sugli occhi, mentre una goccia di sudore scendeva sulla tempia.

     Finito il fuoco, rompevo la cenere con la pinza del camino, per sentirne meglio l’odore, mi è sempre piaciuto. Eppure non mi sentivo troppo felice. Mi sentivo un po’ perso, un po’ più vuoto.

     Finisci per affezionarti più facilmente a quello che odi rispetto a quello che ami. Finisci col sentirti tranquillo pensando a quello che sai essere il tuo nemico, la cosa contro cui scagliarti in ogni momento, con una battuta acida o un pensiero cattivo. Abbiamo un costante bisogno di nemici, in qualunque periodo della nostra vita, abbiamo un costante bisogno di qualcosa da combattere. Un bel gomitolo di fili da sbrogliare non troppo in fretta, concentrando gli sforzi mentre si immagina il momento in cui quel gomitolo non ci darà più alcun problema. Ci sforziamo, pensando al momento di quell’addio come ad un momento felice, ma in fondo non è mai un momento felice.

     Da un nemico si passa ad un altro, sconfiggendo quello che si era ormai imparato a conoscere, quello con cui scontrarsi dava più forza nel corso della giornata, semplicemente perché, dopo tanto tempo, erano chiari i luoghi dove colpirlo più forte. Da un nemico si passa ad un altro, magari più forte, ma sicuramente diverso da prima. Non si lascia un nemico senza avergli voluto bene.

     Non si lascia un posto in cui ci si sente stretti senza provare almeno un po’ di dispiacere. Terminare ciò che è bello è sempre più facile di terminare ciò che è brutto. Lasciare il proprio letto, il proprio primo puzzle finalmente completo, il papà fin troppo paziente, la mamma che è sempre la mamma, si può lasciare questo con un sorriso.

     In silenzio, con il cielo della notte sporco di uno spruzzo del sole, in silenzio ho abbandonato il mio nemico.

     In silenzio ho pianto mentre l’alba mi rideva in faccia, ingozzandosi degli ultimi brandelli ancora freschi della notte.

sabato 29 settembre 2012

Selezione.

    A scuola, quando ero bambino, mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono uguali, che tra umano ed umano non esiste alcuna differenza, che siamo tutti quanti uguali e per questo dobbiamo amarci l'uno con l'altro. Poi mi sono reso conto dell'enorme bugia dietro a questa affermazione, mi sono reso conto che se fosse vera gli uomini sarebbero tutti quanti dei monotoni batteri asessuati, uno clone dell'altro, tutti con la stessa faccia e che, a quel punto, non ci resterebbe che sperare di non essere i figli del vicino rompicoglioni.

    La diversità rende la specie umana tanto longeva, disconoscerla alle generazioni è un peccato grave. La famosa selezione naturale ci ha permesso oggi di sederci alle nostre tavole, gustare tranquillamente il nostro brodo vegetale pieno di formaggio grattuggiato fuso, mentre al telegiornale mandano un servizio di 7 minuti sull'amicizia tra il gatto Briciola ed una gazza ladra.

    La famosa selezione naturale ha fatto sì che quest'estate rinunciassi al randagismo e mi dessi allo studio più intenso, per avere il privilegio di poter realizzare il mio sogno. Anche se, nel mio caso, non si tratta di vera e propria selezione naturale. Si tratta di un gruppo di persone che mette insieme un'accozzaglia di ottanta domande, per propinarle di fronte a circa settantasettemila studenti con l'ultimatum: "se non rispondi decentemente a queste domande, sei fuori".

    Il pullman dell'andata era pieno di altri ragazzi più o meno pronti, come me, a sottoporsi a questo strano gioco al massacro, questa specie di roulette russa del futuro lavorativo. Seduto al mio sedile, macinavo pensieri sulla democrazia, sul diritto allo studio, mentre l'autista spazientito richiamava sul bus i viaggiatori che si erano lasciati prendere per troppo tempo da un'incantevole autogrill nei pressi di Napoli. Non poteva essere un metodo democratico, in un paese libero come il nostro. Eppure di lì a 24 ore mi sarei trovato di fronte al mio futuro, di cui sarei stato il solo e unico responsabile.

    Quella notte ho dormito incredibilmente bene. Mi sono svegliato e mi sono lavato senza nessun pensiero. Ho fatto colazione con caffè e una ciambella fritta. Il bar era strapieno di miei concorrenti e l'atmosfera era davvero pacata. Sapevo che lì in mezzo ci sarebbe stata gente che avrebbe voluto iniziare le eliminatorie in quel momento, mettere lassativi o sonniferi in tutti i caffè, pur di avere qualche possibilità in più. Eppure nessuno l'avrebbe fatto. Eppure in fondo ognuno sapeva di essere nella stessa condizione di tutti gli altri. In fondo, mal comune è mezzo gaudio.

    L'entrata dell'ateneo era molto affollata. Erano tutti lì, ammassati, con qualche libro aperto, pronti a quella strana situazione comune. C'era anche mia madre con me, in fondo sarei stato lì per una settimana intera, per fare altri test, anche se l'unico che volevo riuscisse era proprio il primo della lista.

   Gente di tutti i tipi. C'era quello che piangeva, quella che litigava col fidanzato, c'era il ragazzo di cartone, appena uscito da una puntata di 90210, con la camicia a posto, i capelli a posto, i pantaloni a posto, il cellulare strafìco in mano che parlava con altri suoi pari con la sigaretta in mano. E poi c'era lui.

   Un tipo con i capelli lunghi e la barba stile San Giuseppe, con una camicia a quadri fradicia sotto le ascelle, a gesticolare e a parlare con qualche genitore in apprensione. In una mano reggeva una borsa di pelle vecchia e tutta graffiata, come se fosse stata appena attaccata da una volpe. Parlava ad alta voce, agitando le mani, mentre la figlia vicino a lui si rosicchiava le dita.

    I ragazzi si ammassarono come agnelli verso il recinto nel momento in cui aprirono le porte dell'aula. Io avevo deciso di aspettare che si ammazzassero tra loro, sarei entrato con più calma. Il tipo, discostato dai più, arringava qualche genitore preoccupato, parlando piano e con l'aria di chi sa il fatto suo. Io e mia madre, per curiosità più che per altro, cercavamo di capire cosa diceva.

    -...che io, io sono psicologo! Io lo so come si fanno questi test...perchè sono io che li faccio questi test! Che lì, lì c'è il trucco, eheheh...- si avvicinò e si mise a parlare un po' più piano -...ho detto a mia figlia che quando trova una domanda lunghissima, in cui non si capisce niente...non si deve perdere d'animo! Deve subito smettere di concentrarsi sul testo e guardare le risposte...la risposta tra tutte che sembra non avere nulla in comune con le altre...è quella la risposta esatta!-

    E' stato in quel preciso momento che ho avuto un'illuminazione. E' stato nel momento in cui ho sentito uscire quella totale idiozia dalla bocca di quell'uomo. Se prima mi chiedevo come mai fossi arrivato a quel punto, come mai non veniva garantita a tutti la possibilità di diventare medico, come mai molti dovevano rinunciare al loro sogno e magari anche io tra loro, sentendo le parole di quell'uomo, dopo aver fatto quiz su quiz per 6 mesi interi e vedendo quella sua figlia così simile a lui, come un cane con il suo padrone, allora mi resi conto della necessità di una selezione.

    Se a qualunque idiota fosse concesso di usare un bisturi oltre i confini dell'allegro chirurgo, allora da quel momento mi curerei esclusivamente attraverso wikipedia.

    La selezione è necessaria. I mezzi possono essere discutibili, ma non si può eliminare la selezione. E' quello che vogliamo ogni giorno, la selezione, fatta da noi o da qualcuno di cui ci fidiamo. Quando andiamo a comprare la carne, ognuno di noi vorrebbe che quella carne che stiamo comprando sia selezionata tra tanti altri pezzi di carne. Non vorremmo mai che ci capitasse un pezzo di carne di un animale malato, infetto da qualche parassita. Selezioniamo anche gli amici, le relazioni, la frutta, gli esercizi da fare a casa. Selezioniamo i vestiti da comprare, le cose da mangiare a cena. E la selezione implica lo scarto.

    Anche in democrazia il popolo vuole la selezione. Il popolo vuole che tutto ciò che produce sia selezionato, che i medici siano solo bravi medici, che gli ingegneri siano solo bravi ingegneri, ma tutto questo implica che molte altre persone rinuncino ad un sogno, per lasciare spazio a chi in quell'ambito è migliore di loro. Anche la natura seleziona, ogni specie è sottoposta a selezione, perchè la più adatta sopravviva rispetto ad un'altra.

    Non sono razzista, non sono fascista, non sono nessuno. E' veramente assurdo che ottanta domande possano preiscindere il futuro di una persona, rovinare il futuro di un umano con una dignità, una volontà, un desiderio, una forza di affermazione, un'unicità irripetibile. Ma è anche veramente assurdo concedere a cani e a porci la possibilità di avere in mano la vita di una persona, che sia un medico o un architetto.

    Ho superato quel test, ma anche se non l'avessi superato la penserei allo stesso modo. Penserei che a me per primo sarebbe stato tolto il diritto di diventare un medico, inizierei a fumare e a diventare più cinico di quanto sono, ma non avrei il capriccio di eliminare la selezione. 
     
   Semplicemente, propongo di basarla su criteri più umani e più obiettivi, che distinguano chi ha passione da chi no, chi vuole salvare le persone da chi vuole solo fare soldi, chi ama la propria scelta da chi la odia. Mi inorridisce pensare che qualcuno pensi davvero di distinguere un buon potenziale medico da un macellaio chiedendo ad entrambi qual'è la capitale della Bolivia.

    Pensavo a queste cose, ed inorridivo sapendo che mi sarei trovato proprio in quella situazione. Decidere se ero pronto a diventare un medico solo con ottanta crocette, impugnare la stessa arma con cui potevo davvero perdere la mia ambizione più grande. Guardavo i miei compagni per caso, così simili a degli agnelli ammassati all'entrata dell'aula, a prendere posto tra i banchi, dietro quella porta, lì dove li aspettava una carneficina di sogni, senza aver fatto nulla di male per meritarla. Anche io ero tra loro, in quel luogo in cui di lì a poco sarebbe stati sparsi pezzi di dignità dappertutto, anche la mia magari.

    Pensavo a chissà cosa pensava l'inventore di questo metodo assurdo nel momento in cui ha concepito una tale macchina di selezione. No, non poteva pensare che sarebbero bastate quelle crocette a decidere chi merita di provare a fare il medico, su quegli argomenti soprattutto. Non ci vuole un genio a capire questo. Non ci vuole un genio a capire che è il metodo meno dispendioso per scegliere alcuni tra tanti.


    Eppure sarebbe stato un lavoro pulito. Nessuno avrebbe avuto la coscienza sporca, semplicemente perchè ognuno aveva in mano il suo destino. Ognuno avrebbe scelto il suo destino attraverso quelle domande. Il massacro perfetto, in cui la vittima è il suo carnefice. Pensavo che anche io avrei potuto essere la mia vittima, e in quel caso sarebbe stata colpa mia perchè non avrei saputo rispondere a quelle domande. Pensavo a coloro che non ce l'avrebbero fatta.


    E' soltanto colpa loro se non sanno qual è la capitale della Bolivia.

martedì 18 settembre 2012

Festa.


     Ci sono posti in cui ci si sente a casa. Non si tratta di casa vera e propria, ma di posti che ci danno lo stesso calore di casa, la stessa accoglienza, ristoro, bei ricordi, posti sicuri in cui isolarsi, come se si fosse a casa propria. Sono posti che dispiace, dispiace davvero abbandonare. I tedeschi li chiamano heimat, o qualcosa del genere.

     Nel punto più alto di una pianura ampia molti chilometri, c’è un paesino. Ci ho trascorso la maggior parte della mia infanzia. Un posto curioso, in cui il tempo non sembra mai rovinare nulla. Tutto scorre normalmente, secondo un ritmo atavico, un lento orologio di legno caricato una volta sola, che da allora non ha bisogno più di manutenzione. Tutti conoscono tutti, tutti sanno tutto di tutti, in un modo quanto mai spassoso.

    Le vecchine, la sera, si mettono tutte lì, nei vialetti, a giudicare i fatti del giorno, le persone, le figlie delle persone. Unirsi a loro, anche solo per ascoltare, è uno spettacolo unico. Sentire il dialetto stretto, i soprannomi strani che si tramandano di padre in figlio, nati dai fatti più assurdi capitati ai nonni dei nonni di persone ancora vive. Di alcuni, l’origine del soprannome è nota, di altri non si ricorda neanche più. Era divertente (e lo è tuttora) giocare con questi soprannomi, sentirne il più possibile, capire a chi si riferiscono, così anche solo camminare e vedere ogni persona nel paese era come camminare in una festa in maschera, fatta di persone più o meno ignare di indossare una certa maschera grottesca. Il signor verza, il signor scarafaggio, il signor brufoloinculo, il signor sceriffo, erano tutti lì, lo sono sempre stati.

     Il vicino di casa di mio zio, che abita lì, e la sua strana famiglia, anche loro hanno le loro maschere. Il vicino è un tipo magro e alto, fa il pescatore, fuma e bestemmia sempre. Sua moglie, un po’ grossa, lavoricchia di qua e di là, con quello che trova e il figlio piccolo va in giro dappertutto con la sua bici. Al matrimonio della sorella di lui, seppure un po’ povero, il vicino ci teneva molto a far bella figura, così decise di improvvisare una tintura per capelli per colorare la sua solita chioma grigia. Era un po’ inesperto, per cui il suo lavoro non riuscì come previsto. I suoi capelli restarono grigi, in compenso colorò di biondo platino una vistosa parte della sua frangia. Essendo naturalmente spettinato, sembrava un incrocio tra il chitarrista dei Green Day e Cristiano Malgioglio in una giornata storta. Uscì di casa e andò al matrimonio, stette tutto il tempo con la mano sulla fronte e il viso rosso per la vergogna. Il risultato finale non fu né il chitarrista dei Green Day né Malgioglio. Sembrava semplicemente un ubriaco in giacca e cravatta. Una maschera perfetta. Da quel giorno, tutte le volte che lo incontro lo ricordo in quel momento e lo saluto con un sorriso, con la stessa empatia che ho verso Paperino.

    Quella continua festa, quel passeggiare, riconoscere, salutare, avere il piacere di essere riconosciuti e continuare ognuno per i propri affari, era quello il sentirsi a casa.

    Anno dopo anno, l’orologio continuava a scorrere, con qualche vecchina in meno, qualche scandalo in più, qualche persona che prende e va via, qualche persona che resta. Impercettibilmente, il ticchettio dell’ingranaggio continuava a fare il suo corso, verso un continuo flebile spegnersi. Nessuno più resta nel paese, le generazioni passano, e i figli degli anziani si seguono uno dietro l’altro, pronti e decisi ad andare altrove, giustamente. Grandi speranze, troppo grandi da essere accontentate da una festa in maschera.

     Gli scandali diventano sempre meno eclatanti, anche perché non c’è più nessuno che ne parla. Le sere calde d’estate non sono più illuminate dalle piccole giurie da vicolo, che si riunivano sgranocchiando qualche pistacchio preso alla fiera del giorno prima, fatto avanzare apposta per la serata. Mute testimoni sono solo le mura del paese vecchio e della chiesa madre, dodici anni fa luogo di riunione generale, attualmente inagibile e diventata un ingombrante spartitraffico.

     Accompagno a farsi i capelli lo zio che abita lì, in un giorno con il sole. Incontriamo un suo amico, che ha una barchetta al porto, così come mio zio. L’amico dello zio è un signore un po’ attempato pieno di tatuaggi strani dappertutto, tra cui quello di un bella donna sulla schiena. Coltiva pomodori e zucchine nell’orticello e, a tempo perso, va a pesca con lo zio. Qualche anno fa mostrava una barba folta e un baffone da ammaestratore del circo. Lo ritrovo dopo due anni, rasato, più stanco del solito, come un pagliaccio struccato dopo lo spettacolo.

    -Ho messo il motore nuovo alla barca, della…della…gliamàchia, mi pare che si chiama così.-, dice allo zio, che non corregge l’amico e dice che è un motore buono. Anche l’orto gli va bene, quest’anno sembra siano venuti fuori dei pomodori buoni. E poi silenzio. Eravamo in tre, in piedi, a guardare il sacro spartitraffico, senza più niente da dire. Il cielo ride, al bar sono buttati quattro vecchi come cani randagi, attorno alla fontana con il fascio littorio che funziona tuttora, ma di cui nessuno più si serve. Passa il vecchio tuttofare con la sua orrenda Tipo color verde palude. Arriva all’incrocio con la terza, saluta timidamente tutti con un colpo di clacson, mette la freccia a destra e gira a sinistra. Nessuno lo corregge, nessuno sembra essersene accorto. Il silenzio continua, finchè lo zio non dice di voler andare a farsi i capelli. Saluto l’amico dello zio e lo seguo.

    Il barbiere è allievo di un altro barbiere del paese. E’ giovanissimo, andavo sempre da lui quando ero piccolo. Un tipo dalla battuta pronta, non si poteva non ridere insieme a lui. Non andavo a trovarlo da almeno sei anni. Delle sue solite camicie a quadri non restava molto. I capelli con la riga in mezzo, una polo a righe e l’aria di un signore avanti con gli anni. Mi saluta con un sorriso. Non dice nulla, lavora e basta. Nessuno dice nulla, il silenzio è padrone.

    La festa sembra davvero finita. Tutto non esprime più vitalità, ma una lenta e continua stanchezza. Giorno dopo giorno, ognuno si corica un po’ di più sul fianco. Il vicino dello zio, ogni giorno, più che bonario sembra incazzato. Suo figlio gira così al largo che non lo vedo mai. La moglie, sempre gentile, esce un po’ meno spesso.

    Lo so già. Questa sarà l’ultima volta in cui vedrò quella casa in quello stato. La prossima volta sarà ancora più silenziosa, quella casa. Il vicino sarà, a ragione, ancora più incazzato con il sistema che lo ha voluto povero. Il barbiere inizierà a cacciare capelli bianchi. La pista da bocce sarà ancora più piena di cacche di cane che nessuno ormai toglie più via. Di quella festa continua non resterà che qualche lustrino per terra, qualche maschera caduta per il sonno, qualche maschera struccata e stanca di una festa durata così tanto, qualche altra ubriaca di tutto questo.

     L’orologio resterà lì, così come la chiesa spartitraffico, ad aspettare ancora. Resterà solo un lungo sonno, fatto di giorni senza più alcun nome, finchè un’altra festa non capiterà nello stesso luogo, finchè non diventerà casa per qualcun altro.

     E della vecchia festa non resterà più nulla.

mercoledì 29 agosto 2012

Non ci pensare.

    Non ho mai creduto alla favoletta del desiderio delle stelle cadenti, nè ci crederò mai. Sono semplicemente dovute al fatto che la Terra, mentre gira, ogni tanto qualche cosa le si sbatte sopra. E' come un tipo che gira per strada e lo prendono a sassate. Ecco, non è che per ogni sasso che prende esprime un desiderio. Figurati se è contento uno che lo prendono a sassi mentre cammina. Eppure, le stelle cadenti restano qualcosa di spettacolare. Non smetterò mai di stupirmi ogni volta che ne vedo una, di esultare per aver visto qualcosa che in fondo tutti vogliono vedere, ma che proprio io ho avuto l'occasione di vedere e di dire "L'ho vista!".

    Un giorno di questi mi ritrovo a mare in buona compagnia. Cioè, una notte di queste. Non siamo molti, ma stiamo bene, a fissare questo cielo pulito, pieno di puntini bianchi uno più diverso dall'altro. Io mi sentivo un idiota, in fondo, a stare in costume su una sdraio da spiaggia con il collo piegato a guardare il cielo, ad aspettare che accadesse qualcosa. Di colpo inizio a sentire l'odore del mio stesso alito, mi accorgo di avere anche la bocca aperta e di aver mangiato troppa pizza. Ogni tanto, uno dei miei compagni di notte diceva di aver visto una stella cadente. Non riuscivo a vederne nessuna, così, un po' scocciato, inizio a cercare il Grande Carro.

     Le stelle cadenti sono roba da dilettanti. Il Grande Carro è roba seria. Ecco, tutti possono dire di aver visto una stella cadente, ma solo quelli più fichi hanno trovato il Grande Carro. Di colpo, i miei amici vicino a me dicono di averlo visto, ma ancora io non riesco a trovarlo. Una di loro me lo spiega, mi dà le istruzioni, ma a quanto pare sono proprio impedito. Niente.

     Quella sera doveva essere una sera come le altre, una nottata tra amici, eppure era diventata quasi per caso una specie di festa per i miei 18 anni. A me non piace fare feste, eppure, così come si stava svolgendo, mi rendo conto che era proprio come la desideravo. Con due giorni di ritardo, senza vestiti eleganti, senza fuochi d'artificio, senza discoteca. Poche persone, senza molto disagio, un evento come un altro, più in sordina di tutti gli altri, senza disturbare troppo. Si fa pipì tra le dune, le ragazze senza trucco, tutti a parlare a ruota libera con una torcia cinese comprata all'edicola a 5 euro in più con il giornale. Una serata perfetta, buttati lì, quasi alla fine dell'estate, tra problemi più o meno zittiti.

    Potevo sentire che ognuno seduto intorno a quella torcia scema aveva almeno un motivo per mettersi a piangere, lì, su due piedi. Eppure stavamo tutti a parlare del Grande Carro, a tirare le somme di 5 anni interi, a passare una serata insieme e, in fondo, a scordarci (me compreso) che avevo fatto 18 anni. Pensieri malinconici volavano tra un discorso e l'altro, tra una risata e l'altra, sulle nostre teste, tra una chioma a onde castana, dei ricci neri e altri ricci castani, due code di cavallo, un ciuffo ribelle e il mio casco stile pupazzetto Lego. Potevo vederli chiaramente. Avrei voluto alzarmi in un momento di pausa e piantare un cartello con su scritto "Non ci pensare, almeno per stasera.".

    Non ci pensava nessuno, e ci pensavano tutti. Non puoi farci niente, ad un certo punto, immagino. I pensieri tristi diventano di routine, come le mosche sulla cacca. Ma per quella sera, almeno per quella sera, io mi imponevo di non pensarci. Sarebbe stata una battaglia persa, come quella della balena arenata che vuole tornare in acqua, eppure volevo provarci.

    Così, mi ritrovo, tra un pensiero e l'altro, a mangiare mezza pizza avanzata da qualche ora di fronte agli occhi malinconici dei miei compagni. Mi guardavano stupiti, in fondo anche divertiti. Chissà se potevano capire cosa volessi dire, perchè stessi mangiando altra pizza alle 3 di notte, perchè stessi correndo poco dopo in acqua alle 3 e mezza di notte, con le mani alzate come Giucas Casella. Era il mio modo per dirlo, "Non ci pensare", un messaggio per tutti. Sì, per un momento uno di loro non ci ha pensato, e mi ha seguito. Per fortuna, dal quel momento mi è sembrato che un po' tutti ci pensassimo di meno.

    Fuori dall'acqua, altra pizza, e qualcun'altro la mangia con me. Qualcun'altro ingoia pensieri a morsi di pizza fredda, decide di non pensarci. E infine, finalmente, non ci pensiamo più, pensiamo solo a passeggiare in riva al mare che sbava sulla spiaggia. Passeggiamo tutti.

    Adoro la notte, adoro questa notte.

    Arriva il momento in cui si smette il liceo. Questo è anche sopportabile, arriva, però, il momento che da bambino non ti aspetti quasi mai. Il momento in cui una tua compagnia così assidua, così frequente, tanto da darla per scontata nella tua giornata, prima o poi va via. Ed è sopportabile se questa compagnia è l'elenco dei libri, la campanella, la bidella che puzza di fumo, il tipo impettito e insopportabile che mette cravatte orribili ed è fiero della sua posizione di Professore di qualcosa di definibile solo come "Alligalli".

    Di lì a poco, noi che stavamo lì ci saremmo separati, quello non era sopportabile. Tornare ai propri pensieri, alle proprie navi in partenza. Ed in fondo, il pensiero di tutti era di allungare quanto più fosse possibile quella serata, quella notte, quelle ore insieme a non fare niente. Mangiare via dal resto qualche minuto in più, qualche ora in più, andarsene via un po' più tardi, tenuti insieme dallo stesso tacito proposito.

    Eppure si va tutti quanti via, prima o poi. Chi prima, chi dopo, si va via tutti. Anche le stelle sarebbero andate via di lì a qualche ora, eppure non mi sarei stancato di guardarle. Eppure quella sì che, dopo tanti mesi, era una serata perfetta. Non credo che riuscirò a dimenticarmene.  Nessuno di noi lì se ne dimenticherà, come nessuno si dimentica di nessuno. Tutti vanno via, eppure non dimenticano ciò che lasciano, sanno già che prima o poi ci faranno ritorno. Sanno già che sarà uno dei loro pensieri in un momento più triste degli altri, quella bella serata, quella simpatica compagnia, quegli amici che lì non c'erano, ma da cui ci si è separati, ognuno i suoi.

    Un giorno, amico mio, amica mia, che vai via così, un giorno in cui sarò triste, guarderò le stelle e saprò di non essere solo. Saprò che non mi hai dimenticato, come io non mi dimentico di te. Saprò questo, anche se saremo lontani, e in un brutto momento mi aiuterà a stare meglio, sapere che anche tu, almeno una volta, hai pensato a questo. 

     Ci vediamo sulla spiaggia.

martedì 7 agosto 2012

Suonare.

   Quando ero piccolo ho iniziato a suonare il pianoforte. I miei mi comprarono una bella pianola della Casio, un "sintetizzatore", dicevano, uno tra i migliori di allora. Usato, però in ottimo stato, mi serviva per esercitarmi per le lezioni di piano che prendevo da una maestra. Era una donna un po' strana, aveva la casa piena di oggetti da vecchia, con un figlio brufoloso sulla ventina che non faceva che leggere Topolino e giocare alla playstation.

    Aveva una gabbietta per criceti vuota in corridoio e la sua casa puzzava sempre di chiuso. Aveva un bel pianoforte a coda, di quelli da concerto, una cosa serissima. Solo che io ero molto piccolo per poter suonare roba seria, così per il primo anno e mezzo non ho fatto che suonare le cazzatelle da manualetto dell'apprendista scemo. Come tutti i bambini piccoli, avevo la presunzione di essere grande e volevo le cose difficili.

    Una volta la maestra ci ha raccontato che aveva dietro una storia assurda, di un marito infedele e bastardo, che si era trasferita da Chieti fin qui per motivi assurdi e che stava male, male davvero. In un silenzio generale di imbarazzo, per salvare la situazione chiesi cosa ci facesse da tanto tempo quella gabbietta per criceti vuota nel corridoio. Ci disse che la bestiola che ci viveva era riuscita a scappare da lì dentro sotto i suoi occhi e, decisissima, si buttò dal balcone in un balzo solo. Dopo la mia infelice domanda, iniziò a piangere.

    Quella volta, mentre parlava, mi sono chiesto davvero dove cazzo le venisse la voglia di dare lezioni di piano a piccoli mocciosi. Poi il tempo era finito, mia madre aprì il portafoglio e mi si accese una lampadina. Un giorno ci disse che non poteva fare più lezione perchè aveva traslocato, era partita a Trieste, mi pare. Di lei non ho saputo più nulla.

    Dal pianoforte sono passato alla chitarra. Per il mio compleanno, mio fratello mi regalò una chitarra da apprendista per imparare a suonare, una di quelle che non costano molto. Solo che non volevo rinunciare alla piscina, così ho iniziato ad arrangiarmi da solo con la chitarra. Ho iniziato a fare i primi accordi, solo che avevo le mani troppo piccole e dopo 5 minuti mi facevano male le dita per lo sforzo. Presi l'impegno con me stesso di riprovare l'anno dopo. Effettivamente, l'anno dopo andò un poco meglio.

     Mi stava piacendo di brutto, anche perchè un mio amico mi ha dato un po' di consigli su come imparare a suonare, suonavo anche due ore al giorno e ho iniziato con le prime canzoni. Mi sarebbe piaciuto saper strimpellare qualcosa, così, per suonare sulla spiaggia. Ad un certo punto mi sono reso conto che sebbene gli accordi mi uscissero bene, mi mancava una cosa sola. Una cosa imprescindibile, che ti distingue dal musicista idiota e presuntuoso, che ti porta un po' più vicino ad un musicista che suona live at semaforo: il senso del ritmo.

    Non suonavo. Zappavo. Non facevo scivolare il plettro sulle corde su e giù, armoniosamente, come un qualunque Eric Clapton o un Gigi D'Alessio a caso (Dio mio, anche lui ce la fa). Zappavo bene da Dio, quantomeno. Così, per senso del pudore, ho lasciato. Meglio lasciare, meglio abbandonare che suonare male credendo di suonare bene.

    Quello che non mi manca, dicono, è una voce niente male. Sembra che sappia cantare bene, su certe tonalità. Così ho iniziato a cantare, e mi piaceva, mi piaceva tanto, soprattutto quando mi facevano complimenti. Cantare mi fa sentire bene in certi momenti. Canto quando sto bene, quando sto male, quando sto a metà, canto sempre. E poi non è così impegnativo come lo strumento, basta aprire la bocca e far uscire qualcosa di più simile possibile ad una canzone realmente esistente.

    Poi di essere tanto incosciente ho smesso. La giostra ha iniziato a farmi venire un po' il mal di mare, e anche molto in fretta, tutto questo nel giro di due mesi. Tante piccole certezze sono  venute meno, persone sono andate via, e da un bel castello che avevo tirato su, mi è giusto restato un pugno di sabbia. La classica fase di cambiamento, di passaggio, quella fase che capita a tutti prima o dopo. Quella fase che per la prima volta nella vita puoi davvero dire "sto male". E così, da un giorno all'altro, mi sono ritrovato con così tanti pensieri in testa che ho pensato: "Dio mio, vorrei saper suonare.".

    Niente è perduto. Ho tirato via la zip del fodero, ho estratto la chitarra in letargo, mi sono seduto e ho iniziato ad accordarla. Ho preso lo spartito della versione acustica di Hey Ya e ho iniziato a suonare. Niente, nemmeno a volerlo. Ci sono stato su un pomeriggio intero, diavolo se riuscissi a smettere di zappare. Un po' dispiaciuto, ho rimesso la chitarra nel fodero e sono andato a studiare.

    Ci sono momenti in cui vorrei saper suonare uno strumento. Mi piacerebbe prendere e suonare, così, anche di sera tardi, per non pensare a certe cose. Sono convinto che la maggior parte delle persone che suona uno strumento musicale lo fa per sfogare la propria rabbia attraverso qualcosa di splendido. E' per questo motivo che quando sei molto piccolo o incosciente non hai troppa voglia di imparare a suonare uno strumento musicale, semplicemente perchè non ti va, non ne hai bisogno. Poi arriva sempre il momento in cui sei abbastanza grande per iniziare a capire che nella vita certe cose non te le scrolli di dosso così, su due piedi, così ti viene voglia di suonare qualcosa, ma non ci riesci.

    "E ti tieni la voglia", diceva qualcuno. Ti fai una doccia e vedi che ti passa. Acqua fredda in questi casi, per farti scivolare via tutto quanto, magari anche una lacrima. L'acqua scorre. Mi soffio il naso, e il fiato mi viene per i Killers a mezza voce, per fortuna. Mi viene in mente la maestra di piano. E capisco anche quella donna esaurita, che non si è mai abbastanza vecchi per la musica. Anche se non si sa cantare, anche se non si sa suonare, ogni tanto bisogna farlo, altrimenti non ce la si fa in certi momenti. Bastano anche 5 minuti e il sorriso torna.

     Un secolo fa, un soldato dei nostri in trincea sul Carso era molto preoccupato. I nemici erano vicini e la trincea scarseggiava di rifornimenti. Così ha iniziato a cantare. E un suo compagno di fianco, all'inizio un po' scocciato, sospirò e lo capì. Prese un coltello e incise sulla parete di una roccia umidiccia le parole: "Canta che ti passa".