lunedì 22 luglio 2013

Gamba.

     Un giorno mi svegliai e non avevo più la gamba. Io ci sono affezionato, alla mia gamba, la avevo sin da piccolo, me lo ricordo. Uno si chiede, qualche volta, come fa ad andare in giro senza una gamba. Io non me l'ero mai chiesto, ma sono stato costretto ad impararlo presto. Indossai la scarpa e iniziai a saltare sulla gamba, giusto per abituarmi alla cosa. In fondo non era tanto male, andare in giro su una gamba sola. A destra l'arto era bello completo, con i soliti peli e il solito brutto piede, a sinistra c'era solo un moncherino liscio e tondeggiante.

     Saltellai in bagno e mi buttai sul lavandino freddo. Sputai un po' d'aria sul mio viso stanco e sudato che mi guardava dallo specchio. Ansimai guardando il sudore colare dalla fronte e dal naso, ringraziando il cielo che sia estate. Con non poca fatica, ficcai la testa sotto il rubinetto congelato e mi ritrovai in un istante fresco come una rosa. Quasi soffocai a lavarmi i denti quando mi scivolò lo spazzolino in gola dopo aver perso l'equilibrio, ma fortunatamente sono ancora vivo per raccontarlo.

     Mi aggrappai al bancone del bar come un ubriaco, in realtà avevo solo chiesto un cappuccino e un cornetto. Mangiai e bevvi con avidità, il giorno in cui persi la gamba, senza come e senza perchè. Feci gli scalini uno ad uno fino al terzo piano, rischiandomi di spaccarmi la testa, i denti, e chissà cos'altro ancora. Arrivai in casa, mi buttai sul letto ed iniziai a piangere. La mia gamba, chissà dov'era, ormai. La notte me l'aveva portata via, ed io non avevo fatto niente per perdere la mia gamba, non ho sentito neanche dolore, mi sono svegliato e la mia gamba non c'era più.

     "Ma ora come farò senza la mia gamba? Dove andrò mai? Come faccio a portare le valigie? Come faccio a diventare un medico se non ho una gamba?" pensai affranto, poi suonò il campanello. Io e il mio collega ci mettemmo a studiare senza troppa voglia come fa una palletta di cellule deformi a diventare in 9 mesi un essere umano, passando di mese in mese a sembrare prima un balenottero, poi un tritone e poi il coniglio del Nesquik. Quantomeno si può studiare senza una gamba, puoi fare finta di niente a star seduto, è come se ce l'avessi, fa lo stesso.

     Sono così i giorni dopo la sessione estiva. Uno li aspetta con ansia, poi arrivano e non ha un cazzo da fare. Passai le giornate diviso tra due piacevoli compagnie, cercando di riuscire a tirarmi su, anche se da solo riuscivo benissimo a camminare, quantomeno in compagnia riuscivo a dimenticare la mia inspiegabile menomazione. Mi trascinavo faticosamente dovunque andassi, appesantito dalla mancanza della gamba, il cui peso sembrava semplicemente spostato dalla fine del corpo ai confini del petto. Non è poca l'ansia di non avere una gamba, posso garantirlo. Ti senti più pesante di quando ce l'avevi, perchè tutto il peso del corpo è affidato all'altra gamba.

      Sgobbai sul biliardino colando così tanto sudore quanto mai mi era successo. Un'ottima cura alle gambe mancanti. Soprattutto se vinci spesso. Mai stato competitivo, ma vincere partite a biliardino è una bella soddisfazione, ovviamente sempre restando nel limite del contegno e nel saper accettare le sconfitte. Cercai una partita dietro l'altra, perchè nelle pause ricominciavo a sentire quel vuoto a sinistra, la gamba che mancava, e mi veniva giù un bel magone.
    
      Lo davo a nascondere bene, pareva che nessuno si fosse accorto del mio ingombrante problema. Questo mi fece molto piacere, non mi piace addossare i miei problemi alle persone, ma non cambiava il fatto che mi mancasse tanto la mia gamba. Quando mi trovavo da solo trattenevo le lacrime, non piansi molto se non quella mattina. Accettai immediatamente la cosa, non cercai nessun modo di sistemare la cosa, mi abituai silenziosamente alla mia strana condizione. Dopotutto, avrei potuto qualcosa se la colpa fosse stata mia, non potevo neanche prendermela con me stesso. Non mi fu difficile neanche preparare la valigia, stipare tutti i libri senza nessun problema.

      "Si vede così tanto il fatto che mi manca una gamba?" "Ma cosa stai dicendo? La tua gamba è qui!". Rimasi interdetto e piuttosto confuso. Io non avevo più la gamba, e questo lo sapevo da me, ma a quanto pare non era un dettaglio così immediato. Passai la mano attraverso lo spazio della gamba. "Vedi?" "Ma che cosa dici?" Portò la mano sullo spazio della gamba e la appoggiò su qualcosa che non riuscivo a vedere.

     O mi mancava una gamba o qualche rotella. E se la prima era una novità, sulla seconda da un bel pezzo non c'erano tanti dubbi. Saltellai a casa, mi addormentai piuttosto in fretta, ed eccola lì la mia gamba. Come prima, come nuova. La punzecchiai per vedere se mi stavo ingannando, ed era lì, la mia gamba, come prima. Come se non fosse mai andata via.

     Andai a far colazione con una corsetta, poi presi le valigie e andai fino all'autobus. Non smettevo di toccare quella gamba, temendo andasse via ancora una volta. Presi tranquillamente la metro, non smettendo di pensare allo strano episodio degli ultimi giorni, a metà tra il confuso e lo spaventato.

      Presi posto nell'autobus per andare a casa e mi guardai intorno. Davanti a me, un uomo mosca parlava al telefono. "No, no amore mio...ma porca zzozza, tutte le vorte che me ne devo annà de qquà, mamma mia..." tirò su col naso e continuò "ma tanto mo vengo, amore mio. Paraculetta mia. Eh, no, de certe cose io nun me stanco mai. Che se me stancavo de certe cose, eheheh, c'èra d'ammazzàsse!". Chiuse il telefono e fece un'altra chiamata. "Pupetta mia...papà sta a venì dda tè! 'O sai che mo che vegno te magno de bbaci? T'ho comprato 'a torta cogli smàrtis, quella che tte piace tanto, eh? Paraculetta mia...mo che vengo che, me lo dai un bacetto? Un bacetto ar papà tuo?". Finì la sua telefonata, di cui tutti furono partecipi grazie alla sua voce squillante, e iniziò a piangere dietro i suoi occhiali da sole.

      Dall'altra parte, una mamma teneva la figlia che si gettava contro il vetro del finestrino, piagnucolando e dicendo "mamma, mamma? Perchè papà non viene con noi?" "Amore mio, papà deve stare qui..." "Si, ma a me papà manca....mi manca tanto papà..." "No, amore mio, no, non piangere tesoro mio...". L'uomo mosca e la bambina si dividevano il piano del pullman tra i pianti. Il pianto della bambina sapeva di paura, di angoscia, di terrore, ovattato dal seno della mamma.

      L'uomo mosca dietro i suoi occhiali nascondeva la disperazione di un uomo diviso tra due città, tra due donne e tre figlie, come ci tenne a raccontare dopo poco. Glissai sui cazzi suoi, non essendo un gran pettegolo, e mi diedi qualche pizzicotto alla gamba ascoltando del sano jazz e leggendo Dostoevskij.

      E quel giorno mi scontrai con il volto di quella verità, sempre nascosta, sempre in sottofondo, che improvvisamente aveva scelto di venir fuori. Mise a tacere tutte le altre certezze, prepotentemente gridò il suo ruolo dai suoi occhi. Ed ogni singhiozzo sembrava uscito da ferite aperte e mai richiuse, ogni dolore alla stessa causa, alla stessa origine. La verità gridava che nulla è eterno. Nulla è certo, nulla si può promettere. Tutto è destinato a rompersi, anche il più forte dei legami, non è fatto per durare per sempre.

      Negli occhi di un uomo che piange, un qualunque uomo che piange, la prima cosa che si può leggere è "Io non me lo meritavo". Nessuno in fondo merita di piangere, ma tant'è, tant'è che ognuna delle nostre certezze non durerà tanto a lungo come speriamo. E finirà per colpa mia, oppure per colpa sua, oppure non sarà colpa di nessuno, fatto sta che finirà. E l'inferno lo sentiamo in mezzo a noi, negli occhi della gente che sa questo e rifiuta di accettarlo, vive nel dolore di qualcosa che credeva eterno e in realtà non lo era. Si crede zoppa, in realtà non lo è mai stata.

     Poche sono le certezze che abbiamo, ma più di tutte, l'unica a consolarci, siamo noi stessi. Ci ritroveremo sempre, noi, da soli, grazie ad un'alba vista per caso, un libro o un Dio, alla fine ritroviamo sempre quello che ci siamo dimenticati, rincorrendo gli altri ci siamo dimenticati di quanto siamo apposto già da noi stessi. Perchè gli altri potranno toglierci tutto, ma non noi stessi. Sarà un'illusione quella di essere a pezzi, il tempo che ci serve è quello sufficiente a capire che siamo tutti interi, pronti a partire, ad alzarci sulle nostre stesse gambe, finchè il fiato ce lo permetterà. E neanche quello sarà eterno, il nostro fiato, ma finchè c'è è l'unica certezza che abbiamo.

     E anche se fosse, si può vivere anche senza una gamba. Io lo posso garantire.

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