A scuola, quando ero bambino, mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono uguali, che tra umano ed umano non esiste alcuna differenza, che siamo tutti quanti uguali e per questo dobbiamo amarci l'uno con l'altro. Poi mi sono reso conto dell'enorme bugia dietro a questa affermazione, mi sono reso conto che se fosse vera gli uomini sarebbero tutti quanti dei monotoni batteri asessuati, uno clone dell'altro, tutti con la stessa faccia e che, a quel punto, non ci resterebbe che sperare di non essere i figli del vicino rompicoglioni.
La diversità rende la specie umana tanto longeva, disconoscerla alle generazioni è un peccato grave. La famosa selezione naturale ci ha permesso oggi di sederci alle nostre tavole, gustare tranquillamente il nostro brodo vegetale pieno di formaggio grattuggiato fuso, mentre al telegiornale mandano un servizio di 7 minuti sull'amicizia tra il gatto Briciola ed una gazza ladra.
La famosa selezione naturale ha fatto sì che quest'estate rinunciassi al randagismo e mi dessi allo studio più intenso, per avere il privilegio di poter realizzare il mio sogno. Anche se, nel mio caso, non si tratta di vera e propria selezione naturale. Si tratta di un gruppo di persone che mette insieme un'accozzaglia di ottanta domande, per propinarle di fronte a circa settantasettemila studenti con l'ultimatum: "se non rispondi decentemente a queste domande, sei fuori".
Il pullman dell'andata era pieno di altri ragazzi più o meno pronti, come me, a sottoporsi a questo strano gioco al massacro, questa specie di roulette russa del futuro lavorativo. Seduto al mio sedile, macinavo pensieri sulla democrazia, sul diritto allo studio, mentre l'autista spazientito richiamava sul bus i viaggiatori che si erano lasciati prendere per troppo tempo da un'incantevole autogrill nei pressi di Napoli. Non poteva essere un metodo democratico, in un paese libero come il nostro. Eppure di lì a 24 ore mi sarei trovato di fronte al mio futuro, di cui sarei stato il solo e unico responsabile.
Quella notte ho dormito incredibilmente bene. Mi sono svegliato e mi sono lavato senza nessun pensiero. Ho fatto colazione con caffè e una ciambella fritta. Il bar era strapieno di miei concorrenti e l'atmosfera era davvero pacata. Sapevo che lì in mezzo ci sarebbe stata gente che avrebbe voluto iniziare le eliminatorie in quel momento, mettere lassativi o sonniferi in tutti i caffè, pur di avere qualche possibilità in più. Eppure nessuno l'avrebbe fatto. Eppure in fondo ognuno sapeva di essere nella stessa condizione di tutti gli altri. In fondo, mal comune è mezzo gaudio.
L'entrata dell'ateneo era molto affollata. Erano tutti lì, ammassati, con qualche libro aperto, pronti a quella strana situazione comune. C'era anche mia madre con me, in fondo sarei stato lì per una settimana intera, per fare altri test, anche se l'unico che volevo riuscisse era proprio il primo della lista.
Gente di tutti i tipi. C'era quello che piangeva, quella che litigava col fidanzato, c'era il ragazzo di cartone, appena uscito da una puntata di 90210, con la camicia a posto, i capelli a posto, i pantaloni a posto, il cellulare strafìco in mano che parlava con altri suoi pari con la sigaretta in mano. E poi c'era lui.
Un tipo con i capelli lunghi e la barba stile San Giuseppe, con una camicia a quadri fradicia sotto le ascelle, a gesticolare e a parlare con qualche genitore in apprensione. In una mano reggeva una borsa di pelle vecchia e tutta graffiata, come se fosse stata appena attaccata da una volpe. Parlava ad alta voce, agitando le mani, mentre la figlia vicino a lui si rosicchiava le dita.
I ragazzi si ammassarono come agnelli verso il recinto nel momento in cui aprirono le porte dell'aula. Io avevo deciso di aspettare che si ammazzassero tra loro, sarei entrato con più calma. Il tipo, discostato dai più, arringava qualche genitore preoccupato, parlando piano e con l'aria di chi sa il fatto suo. Io e mia madre, per curiosità più che per altro, cercavamo di capire cosa diceva.
-...che io, io sono psicologo! Io lo so come si fanno questi test...perchè sono io che li faccio questi test! Che lì, lì c'è il trucco, eheheh...- si avvicinò e si mise a parlare un po' più piano -...ho detto a mia figlia che quando trova una domanda lunghissima, in cui non si capisce niente...non si deve perdere d'animo! Deve subito smettere di concentrarsi sul testo e guardare le risposte...la risposta tra tutte che sembra non avere nulla in comune con le altre...è quella la risposta esatta!-
E' stato in quel preciso momento che ho avuto un'illuminazione. E' stato nel momento in cui ho sentito uscire quella totale idiozia dalla bocca di quell'uomo. Se prima mi chiedevo come mai fossi arrivato a quel punto, come mai non veniva garantita a tutti la possibilità di diventare medico, come mai molti dovevano rinunciare al loro sogno e magari anche io tra loro, sentendo le parole di quell'uomo, dopo aver fatto quiz su quiz per 6 mesi interi e vedendo quella sua figlia così simile a lui, come un cane con il suo padrone, allora mi resi conto della necessità di una selezione.
Se a qualunque idiota fosse concesso di usare un bisturi oltre i confini dell'allegro chirurgo, allora da quel momento mi curerei esclusivamente attraverso wikipedia.
La selezione è necessaria. I mezzi possono essere discutibili, ma non si può eliminare la selezione. E' quello che vogliamo ogni giorno, la selezione, fatta da noi o da qualcuno di cui ci fidiamo. Quando andiamo a comprare la carne, ognuno di noi vorrebbe che quella carne che stiamo comprando sia selezionata tra tanti altri pezzi di carne. Non vorremmo mai che ci capitasse un pezzo di carne di un animale malato, infetto da qualche parassita. Selezioniamo anche gli amici, le relazioni, la frutta, gli esercizi da fare a casa. Selezioniamo i vestiti da comprare, le cose da mangiare a cena. E la selezione implica lo scarto.
Anche in democrazia il popolo vuole la selezione. Il popolo vuole che tutto ciò che produce sia selezionato, che i medici siano solo bravi medici, che gli ingegneri siano solo bravi ingegneri, ma tutto questo implica che molte altre persone rinuncino ad un sogno, per lasciare spazio a chi in quell'ambito è migliore di loro. Anche la natura seleziona, ogni specie è sottoposta a selezione, perchè la più adatta sopravviva rispetto ad un'altra.
Non sono razzista, non sono fascista, non sono nessuno. E' veramente assurdo che ottanta domande possano preiscindere il futuro di una persona, rovinare il futuro di un umano con una dignità, una volontà, un desiderio, una forza di affermazione, un'unicità irripetibile. Ma è anche veramente assurdo concedere a cani e a porci la possibilità di avere in mano la vita di una persona, che sia un medico o un architetto.
Ho superato quel test, ma anche se non l'avessi superato la penserei allo stesso modo. Penserei che a me per primo sarebbe stato tolto il diritto di diventare un medico, inizierei a fumare e a diventare più cinico di quanto sono, ma non avrei il capriccio di eliminare la selezione.
Semplicemente, propongo di basarla su criteri più umani e più obiettivi, che distinguano chi ha passione da chi no, chi vuole salvare le persone da chi vuole solo fare soldi, chi ama la propria scelta da chi la odia. Mi inorridisce pensare che qualcuno pensi davvero di distinguere un buon potenziale medico da un macellaio chiedendo ad entrambi qual'è la capitale della Bolivia.
Pensavo a queste cose, ed inorridivo sapendo che mi sarei trovato proprio in quella situazione. Decidere se ero pronto a diventare un medico solo con ottanta crocette, impugnare la stessa arma con cui potevo davvero perdere la mia ambizione più grande. Guardavo i miei compagni per caso, così simili a degli agnelli ammassati all'entrata dell'aula, a prendere posto tra i banchi, dietro quella porta, lì dove li aspettava una carneficina di sogni, senza aver fatto nulla di male per meritarla. Anche io ero tra loro, in quel luogo in cui di lì a poco sarebbe stati sparsi pezzi di dignità dappertutto, anche la mia magari.
Pensavo a chissà cosa pensava l'inventore di questo metodo assurdo nel momento in cui ha concepito una tale macchina di selezione. No, non poteva pensare che sarebbero bastate quelle crocette a decidere chi merita di provare a fare il medico, su quegli argomenti soprattutto. Non ci vuole un genio a capire questo. Non ci vuole un genio a capire che è il metodo meno dispendioso per scegliere alcuni tra tanti.
Eppure sarebbe stato un lavoro pulito. Nessuno avrebbe avuto la coscienza sporca, semplicemente perchè ognuno aveva in mano il suo destino. Ognuno avrebbe scelto il suo destino attraverso quelle domande. Il massacro perfetto, in cui la vittima è il suo carnefice. Pensavo che anche io avrei potuto essere la mia vittima, e in quel caso sarebbe stata colpa mia perchè non avrei saputo rispondere a quelle domande. Pensavo a coloro che non ce l'avrebbero fatta.
E' soltanto colpa loro se non sanno qual è la capitale della Bolivia.
sabato 29 settembre 2012
martedì 18 settembre 2012
Festa.
Ci sono posti in cui ci si sente a casa. Non
si tratta di casa vera e propria, ma di posti che ci danno lo stesso calore di
casa, la stessa accoglienza, ristoro, bei ricordi, posti sicuri in cui
isolarsi, come se si fosse a casa propria. Sono posti che dispiace, dispiace
davvero abbandonare. I tedeschi li chiamano heimat, o qualcosa del genere.
Nel punto più alto di una pianura ampia
molti chilometri, c’è un paesino. Ci ho trascorso la maggior parte della mia
infanzia. Un posto curioso, in cui il tempo non sembra mai rovinare nulla.
Tutto scorre normalmente, secondo un ritmo atavico, un lento orologio di legno
caricato una volta sola, che da allora non ha bisogno più di manutenzione.
Tutti conoscono tutti, tutti sanno tutto di tutti, in un modo quanto mai
spassoso.
Le vecchine, la sera, si mettono tutte lì,
nei vialetti, a giudicare i fatti del giorno, le persone, le figlie delle
persone. Unirsi a loro, anche solo per ascoltare, è uno spettacolo unico.
Sentire il dialetto stretto, i soprannomi strani che si tramandano di padre in
figlio, nati dai fatti più assurdi capitati ai nonni dei nonni di persone ancora
vive. Di alcuni, l’origine del soprannome è nota, di altri non si ricorda
neanche più. Era divertente (e lo è tuttora) giocare con questi soprannomi,
sentirne il più possibile, capire a chi si riferiscono, così anche solo
camminare e vedere ogni persona nel paese era come camminare in una festa in
maschera, fatta di persone più o meno ignare di indossare una certa maschera
grottesca. Il signor verza, il signor scarafaggio, il signor brufoloinculo, il
signor sceriffo, erano tutti lì, lo sono sempre stati.
Il vicino di casa di mio zio, che abita lì,
e la sua strana famiglia, anche loro hanno le loro maschere. Il vicino è un
tipo magro e alto, fa il pescatore, fuma e bestemmia sempre. Sua moglie, un po’
grossa, lavoricchia di qua e di là, con quello che trova e il figlio piccolo va
in giro dappertutto con la sua bici. Al matrimonio della sorella di lui,
seppure un po’ povero, il vicino ci teneva molto a far bella figura, così
decise di improvvisare una tintura per capelli per colorare la sua solita
chioma grigia. Era un po’ inesperto, per cui il suo lavoro non riuscì come
previsto. I suoi capelli restarono grigi, in compenso colorò di biondo platino
una vistosa parte della sua frangia. Essendo naturalmente spettinato, sembrava
un incrocio tra il chitarrista dei Green Day e Cristiano Malgioglio in una
giornata storta. Uscì di casa e andò al matrimonio, stette tutto il tempo con
la mano sulla fronte e il viso rosso per la vergogna. Il risultato finale non
fu né il chitarrista dei Green Day né Malgioglio. Sembrava semplicemente un
ubriaco in giacca e cravatta. Una maschera perfetta. Da quel giorno, tutte le
volte che lo incontro lo ricordo in quel momento e lo saluto con un sorriso,
con la stessa empatia che ho verso Paperino.
Quella continua festa, quel passeggiare,
riconoscere, salutare, avere il piacere di essere riconosciuti e continuare
ognuno per i propri affari, era quello il sentirsi a casa.
Anno
dopo anno, l’orologio continuava a scorrere, con qualche vecchina in meno,
qualche scandalo in più, qualche persona che prende e va via, qualche persona
che resta. Impercettibilmente, il ticchettio dell’ingranaggio continuava a fare
il suo corso, verso un continuo flebile spegnersi. Nessuno più resta nel paese,
le generazioni passano, e i figli degli anziani si seguono uno dietro l’altro,
pronti e decisi ad andare altrove, giustamente. Grandi speranze, troppo grandi
da essere accontentate da una festa in maschera.
Gli scandali diventano sempre meno
eclatanti, anche perché non c’è più nessuno che ne parla. Le sere calde
d’estate non sono più illuminate dalle piccole giurie da vicolo, che si
riunivano sgranocchiando qualche pistacchio preso alla fiera del giorno prima,
fatto avanzare apposta per la serata. Mute testimoni sono solo le mura del
paese vecchio e della chiesa madre, dodici anni fa luogo di riunione generale,
attualmente inagibile e diventata un ingombrante spartitraffico.
Accompagno a farsi i capelli lo zio che
abita lì, in un giorno con il sole. Incontriamo un suo amico, che ha una
barchetta al porto, così come mio zio. L’amico dello zio è un signore un po’
attempato pieno di tatuaggi strani dappertutto, tra cui quello di un bella donna
sulla schiena. Coltiva pomodori e zucchine nell’orticello e, a tempo perso, va
a pesca con lo zio. Qualche anno fa mostrava una barba folta e un baffone da
ammaestratore del circo. Lo ritrovo dopo due anni, rasato, più stanco del
solito, come un pagliaccio struccato dopo lo spettacolo.
-Ho messo il motore nuovo alla barca,
della…della…gliamàchia, mi pare che si chiama così.-, dice allo zio, che non
corregge l’amico e dice che è un motore buono. Anche l’orto gli va bene,
quest’anno sembra siano venuti fuori dei pomodori buoni. E poi silenzio.
Eravamo in tre, in piedi, a guardare il sacro spartitraffico, senza più niente
da dire. Il cielo ride, al bar sono buttati quattro vecchi come cani randagi,
attorno alla fontana con il fascio littorio che funziona tuttora, ma di cui
nessuno più si serve. Passa il vecchio tuttofare con la sua orrenda Tipo color
verde palude. Arriva all’incrocio con la terza, saluta timidamente tutti con un
colpo di clacson, mette la freccia a destra e gira a sinistra. Nessuno lo
corregge, nessuno sembra essersene accorto. Il silenzio continua, finchè lo zio
non dice di voler andare a farsi i capelli. Saluto l’amico dello zio e lo
seguo.
Il barbiere è allievo di un altro barbiere
del paese. E’ giovanissimo, andavo sempre da lui quando ero piccolo. Un tipo
dalla battuta pronta, non si poteva non ridere insieme a lui. Non andavo a
trovarlo da almeno sei anni. Delle sue solite camicie a quadri non restava
molto. I capelli con la riga in mezzo, una polo a righe e l’aria di un signore
avanti con gli anni. Mi saluta con un sorriso. Non dice nulla, lavora e basta.
Nessuno dice nulla, il silenzio è padrone.
La festa sembra davvero finita. Tutto non
esprime più vitalità, ma una lenta e continua stanchezza. Giorno dopo giorno,
ognuno si corica un po’ di più sul fianco. Il vicino dello zio, ogni giorno,
più che bonario sembra incazzato. Suo figlio gira così al largo che non lo vedo
mai. La moglie, sempre gentile, esce un po’ meno spesso.
Lo so già. Questa sarà l’ultima volta in
cui vedrò quella casa in quello stato. La prossima volta sarà ancora più
silenziosa, quella casa. Il vicino sarà, a ragione, ancora più incazzato con il
sistema che lo ha voluto povero. Il barbiere inizierà a cacciare capelli
bianchi. La pista da bocce sarà ancora più piena di cacche di cane che nessuno
ormai toglie più via. Di quella festa continua non resterà che qualche lustrino
per terra, qualche maschera caduta per il sonno, qualche maschera struccata e stanca
di una festa durata così tanto, qualche altra ubriaca di tutto questo.
L’orologio resterà lì, così come la chiesa
spartitraffico, ad aspettare ancora. Resterà solo un lungo sonno, fatto di
giorni senza più alcun nome, finchè un’altra festa non capiterà nello stesso
luogo, finchè non diventerà casa per qualcun altro.
E della vecchia festa non resterà più
nulla.
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