lunedì 22 luglio 2013

Gamba.

     Un giorno mi svegliai e non avevo più la gamba. Io ci sono affezionato, alla mia gamba, la avevo sin da piccolo, me lo ricordo. Uno si chiede, qualche volta, come fa ad andare in giro senza una gamba. Io non me l'ero mai chiesto, ma sono stato costretto ad impararlo presto. Indossai la scarpa e iniziai a saltare sulla gamba, giusto per abituarmi alla cosa. In fondo non era tanto male, andare in giro su una gamba sola. A destra l'arto era bello completo, con i soliti peli e il solito brutto piede, a sinistra c'era solo un moncherino liscio e tondeggiante.

     Saltellai in bagno e mi buttai sul lavandino freddo. Sputai un po' d'aria sul mio viso stanco e sudato che mi guardava dallo specchio. Ansimai guardando il sudore colare dalla fronte e dal naso, ringraziando il cielo che sia estate. Con non poca fatica, ficcai la testa sotto il rubinetto congelato e mi ritrovai in un istante fresco come una rosa. Quasi soffocai a lavarmi i denti quando mi scivolò lo spazzolino in gola dopo aver perso l'equilibrio, ma fortunatamente sono ancora vivo per raccontarlo.

     Mi aggrappai al bancone del bar come un ubriaco, in realtà avevo solo chiesto un cappuccino e un cornetto. Mangiai e bevvi con avidità, il giorno in cui persi la gamba, senza come e senza perchè. Feci gli scalini uno ad uno fino al terzo piano, rischiandomi di spaccarmi la testa, i denti, e chissà cos'altro ancora. Arrivai in casa, mi buttai sul letto ed iniziai a piangere. La mia gamba, chissà dov'era, ormai. La notte me l'aveva portata via, ed io non avevo fatto niente per perdere la mia gamba, non ho sentito neanche dolore, mi sono svegliato e la mia gamba non c'era più.

     "Ma ora come farò senza la mia gamba? Dove andrò mai? Come faccio a portare le valigie? Come faccio a diventare un medico se non ho una gamba?" pensai affranto, poi suonò il campanello. Io e il mio collega ci mettemmo a studiare senza troppa voglia come fa una palletta di cellule deformi a diventare in 9 mesi un essere umano, passando di mese in mese a sembrare prima un balenottero, poi un tritone e poi il coniglio del Nesquik. Quantomeno si può studiare senza una gamba, puoi fare finta di niente a star seduto, è come se ce l'avessi, fa lo stesso.

     Sono così i giorni dopo la sessione estiva. Uno li aspetta con ansia, poi arrivano e non ha un cazzo da fare. Passai le giornate diviso tra due piacevoli compagnie, cercando di riuscire a tirarmi su, anche se da solo riuscivo benissimo a camminare, quantomeno in compagnia riuscivo a dimenticare la mia inspiegabile menomazione. Mi trascinavo faticosamente dovunque andassi, appesantito dalla mancanza della gamba, il cui peso sembrava semplicemente spostato dalla fine del corpo ai confini del petto. Non è poca l'ansia di non avere una gamba, posso garantirlo. Ti senti più pesante di quando ce l'avevi, perchè tutto il peso del corpo è affidato all'altra gamba.

      Sgobbai sul biliardino colando così tanto sudore quanto mai mi era successo. Un'ottima cura alle gambe mancanti. Soprattutto se vinci spesso. Mai stato competitivo, ma vincere partite a biliardino è una bella soddisfazione, ovviamente sempre restando nel limite del contegno e nel saper accettare le sconfitte. Cercai una partita dietro l'altra, perchè nelle pause ricominciavo a sentire quel vuoto a sinistra, la gamba che mancava, e mi veniva giù un bel magone.
    
      Lo davo a nascondere bene, pareva che nessuno si fosse accorto del mio ingombrante problema. Questo mi fece molto piacere, non mi piace addossare i miei problemi alle persone, ma non cambiava il fatto che mi mancasse tanto la mia gamba. Quando mi trovavo da solo trattenevo le lacrime, non piansi molto se non quella mattina. Accettai immediatamente la cosa, non cercai nessun modo di sistemare la cosa, mi abituai silenziosamente alla mia strana condizione. Dopotutto, avrei potuto qualcosa se la colpa fosse stata mia, non potevo neanche prendermela con me stesso. Non mi fu difficile neanche preparare la valigia, stipare tutti i libri senza nessun problema.

      "Si vede così tanto il fatto che mi manca una gamba?" "Ma cosa stai dicendo? La tua gamba è qui!". Rimasi interdetto e piuttosto confuso. Io non avevo più la gamba, e questo lo sapevo da me, ma a quanto pare non era un dettaglio così immediato. Passai la mano attraverso lo spazio della gamba. "Vedi?" "Ma che cosa dici?" Portò la mano sullo spazio della gamba e la appoggiò su qualcosa che non riuscivo a vedere.

     O mi mancava una gamba o qualche rotella. E se la prima era una novità, sulla seconda da un bel pezzo non c'erano tanti dubbi. Saltellai a casa, mi addormentai piuttosto in fretta, ed eccola lì la mia gamba. Come prima, come nuova. La punzecchiai per vedere se mi stavo ingannando, ed era lì, la mia gamba, come prima. Come se non fosse mai andata via.

     Andai a far colazione con una corsetta, poi presi le valigie e andai fino all'autobus. Non smettevo di toccare quella gamba, temendo andasse via ancora una volta. Presi tranquillamente la metro, non smettendo di pensare allo strano episodio degli ultimi giorni, a metà tra il confuso e lo spaventato.

      Presi posto nell'autobus per andare a casa e mi guardai intorno. Davanti a me, un uomo mosca parlava al telefono. "No, no amore mio...ma porca zzozza, tutte le vorte che me ne devo annà de qquà, mamma mia..." tirò su col naso e continuò "ma tanto mo vengo, amore mio. Paraculetta mia. Eh, no, de certe cose io nun me stanco mai. Che se me stancavo de certe cose, eheheh, c'èra d'ammazzàsse!". Chiuse il telefono e fece un'altra chiamata. "Pupetta mia...papà sta a venì dda tè! 'O sai che mo che vegno te magno de bbaci? T'ho comprato 'a torta cogli smàrtis, quella che tte piace tanto, eh? Paraculetta mia...mo che vengo che, me lo dai un bacetto? Un bacetto ar papà tuo?". Finì la sua telefonata, di cui tutti furono partecipi grazie alla sua voce squillante, e iniziò a piangere dietro i suoi occhiali da sole.

      Dall'altra parte, una mamma teneva la figlia che si gettava contro il vetro del finestrino, piagnucolando e dicendo "mamma, mamma? Perchè papà non viene con noi?" "Amore mio, papà deve stare qui..." "Si, ma a me papà manca....mi manca tanto papà..." "No, amore mio, no, non piangere tesoro mio...". L'uomo mosca e la bambina si dividevano il piano del pullman tra i pianti. Il pianto della bambina sapeva di paura, di angoscia, di terrore, ovattato dal seno della mamma.

      L'uomo mosca dietro i suoi occhiali nascondeva la disperazione di un uomo diviso tra due città, tra due donne e tre figlie, come ci tenne a raccontare dopo poco. Glissai sui cazzi suoi, non essendo un gran pettegolo, e mi diedi qualche pizzicotto alla gamba ascoltando del sano jazz e leggendo Dostoevskij.

      E quel giorno mi scontrai con il volto di quella verità, sempre nascosta, sempre in sottofondo, che improvvisamente aveva scelto di venir fuori. Mise a tacere tutte le altre certezze, prepotentemente gridò il suo ruolo dai suoi occhi. Ed ogni singhiozzo sembrava uscito da ferite aperte e mai richiuse, ogni dolore alla stessa causa, alla stessa origine. La verità gridava che nulla è eterno. Nulla è certo, nulla si può promettere. Tutto è destinato a rompersi, anche il più forte dei legami, non è fatto per durare per sempre.

      Negli occhi di un uomo che piange, un qualunque uomo che piange, la prima cosa che si può leggere è "Io non me lo meritavo". Nessuno in fondo merita di piangere, ma tant'è, tant'è che ognuna delle nostre certezze non durerà tanto a lungo come speriamo. E finirà per colpa mia, oppure per colpa sua, oppure non sarà colpa di nessuno, fatto sta che finirà. E l'inferno lo sentiamo in mezzo a noi, negli occhi della gente che sa questo e rifiuta di accettarlo, vive nel dolore di qualcosa che credeva eterno e in realtà non lo era. Si crede zoppa, in realtà non lo è mai stata.

     Poche sono le certezze che abbiamo, ma più di tutte, l'unica a consolarci, siamo noi stessi. Ci ritroveremo sempre, noi, da soli, grazie ad un'alba vista per caso, un libro o un Dio, alla fine ritroviamo sempre quello che ci siamo dimenticati, rincorrendo gli altri ci siamo dimenticati di quanto siamo apposto già da noi stessi. Perchè gli altri potranno toglierci tutto, ma non noi stessi. Sarà un'illusione quella di essere a pezzi, il tempo che ci serve è quello sufficiente a capire che siamo tutti interi, pronti a partire, ad alzarci sulle nostre stesse gambe, finchè il fiato ce lo permetterà. E neanche quello sarà eterno, il nostro fiato, ma finchè c'è è l'unica certezza che abbiamo.

     E anche se fosse, si può vivere anche senza una gamba. Io lo posso garantire.

martedì 16 luglio 2013

Giallo.

      Signori, signori! Se sono qui oggi è per presentare un'idea fantastica. Qui ci vuole un po' di modernità. Queste case dello studente potevano andar bene negli anni di piombo, questi palazzoni strani, che i bambini quando passeggiano con i loro genitori non sanno neanche che cosa ci fanno dentro (e figurarsi i genitori come dovrebbero fare a rispondere ai loro dubbi), questi edifici stantii potevano andar bene tanti anni fa! Ma ora, ora i giovani cercano qualcosa di nuovo! I giovani adorano l'estero, adorano l'esotico, quello che vedono nei telefilm! E diamoglielo, per Diana!

      Il cortile strano di mattonato casalingo da esterni circonda i blocchetti stile lego immersi in chiazze di verde versate a caso da una brocca piena di acqua e sciroppo alla menta in un giorno d'estate. Ogni tanto qualche panchina. Gli alberi gridano insensatezza, prelevati da ogni posto d'Italia e costretti al reciproco imbarazzo ed un tabellone giallo sbiadito da qualche estate reclama l'esistenza di una specie di ecosistema qui dentro. Caro signor architetto designer di esterni (e magari pure di interni), cosa ti ha fatto pensare che questo poteva in qualche lontano modo ricordarmi un telefilm americano?

      I ragazzi arrivano a trovarsi nello stesso imbarazzo tra una quercia del Piemonte e un albero strano del Sannio, che potranno avere senz'altro molto da dirsi, ma insieme al cespuglio delle Marche, al roseto della Campania e alla cicas di importazione finiranno per fare piazza. E alla fine il telefilm americano ce l'avevamo già nei paesini qualunque di ogni posto qualunque, solo che qui a far piazza ci sono persone da ogni angolo.

      Un paio fornica nella penombra e cammino in compagnia. I fari intorno gridano di giallo coni di sentiero morbidamente asfaltato, a dar tregua al tremendo mattonato rossastro. Finestre gialle di vetri gialli con tende gialle attendono verdetti alla luce, mangiando angoli alla notte. Si parla e ci si siede. Le infradito scricchiolano sulla ghiaia irrigata per sbaglio, in lontananza il deposito dei bus languisce faretti multicolore di giallo. La luna al tramonto si inzuppa di follia sanguigna, e gli occhi bianchi della notte non vogliono farsi vedere.

      Il bello è che non c'è molta gente. Non c'è nessuno, ed ogni eventuale gruppo si tiene a debita distanza dagli altri. Ogni palazzetto urla di giallo dalla bocca, e i ballatoi sembrano corridoi carcerari con porte in alluminio per ogni cella. Le cavallette sferzate dal freddo gentile si trascinano in una sera troppo fredda per restare con bermuda e infradito, tra discorsi di un certo spessore. Se sei sotto esame, non hai tempo per questo. Studiare assorbe ogni cosa, anche la voglia di guardar fuori dalla finestra. Non te ne frega un granchè di niente, studi e basta, poi arriva l'ansia delle ore prima, ed è tutto in funzione di quella data.

      Cerchi di star comodo, dieci minuti alla scrivania, dieci minuti in piedi, dieci seduto all'indiana sul letto, eppure la plafoniera gialla spietata resta sempre quella. Apri la finestra, ma il Sole non è un granchè diverso. Sputa raggi gialli sul pavimento verde, senza neanche preoccuparsi dell'accostamento. Finchè anche il Sole folle e giallo sta nel cielo, finchè continua il mattino, va tutto bene. Scende il tramonto, con gli occhi cerchi di aggrapparti all'ultimo filo giallo del pallone di fuoco che corre via per un calcio troppo forte, ed ogni studente lo guarda e con gli occhi grida "Palla!", come se qualcuno potesse ridarglielo indietro. Ed è notte, i lampioni gridano indietro istanti di quel Sole che è andato via, reclamano alla povera notte istanti di giorno, come il pazzo che cerca di tagliare anche il piatto dopo aver finito la bistecca.

      E la follia del Sole è crudele nel giorno cruciale. Grida storie di mare, di passeggiate anni prima e di amori mai nati, strappa istanti al passato senza pietà, mentre il presente languisce in ogni angolo. Oggi c'è l'esame. Entra negli occhi e inietta follia, sguardi di piccoli uomini come maiali al mattatoio, i macellai calano scuri di inchiostro sulle loro giugulari, schizzi di sudore e spruzzi di fatica. E' un momento, e poi basta.

     L'atrio pullula di anime di maiali morti scannati, con numeri dallo zero al trentellòde. I macellai stanchi vanno a fare quello che fa un macellaio dopo la mattanza, e le anime vagano un po' dove gli pare.

      La sveglia suona come un amico trascurato, "ma oggi non studi?"  "E perchè?". Perchè studiare. Perchè alzarsi. Perchè esiste il mattino. Perchè. Mi alzo, e non so cosa faccio. Ieri a 48 ore studiavo, oggi faccio il bucato, lo faccio a mano per perdere tempo. Il Sole amorevole, follia è sconosciuta. Il giallo del pallone di fuoco redime le anime perdute e la plafoniera ammansisce il pigrone. Ed è lecito stare tre quarti d'ora sul cesso, è lecito tutto, non hai veramente un cazzo da fare.

      Ed è mezzogiorno, e non hai un cazzo da fare. Il Sole giallo è così dolce che alla lunga rompe i coglioni. Chiami qualcuno, state insieme, ma dopo un po' è come se aveste finito le cose da dire. State seduti, un'ombra gialla entra dalla finestra e danza immobile sul tavolo. E ora che si fa?

      Il libro è chiuso, ed aspetti la notte, aspetti la sera, perchè la sera ti ispira. Stasera non dormo, stasera faccio casino e basta. Stasera sto sveglio, stasera non c'è il Sole, basta con questo giallo, voglio il buio. Decido io dove ci sia la luce, decido io di star sveglio, di evadere dalla follia generale, che per qualche giorno non mi colpirà. Basta.

     La sera di colpo arriva, ed eccoti lì, con le infradito con il tempo che fa, con il freddo che ti passa tra i peli e le cavallette che camminano a fatica. Parli e la notte continua, la notte va avanti. Hai aspettato la fine del giorno, hai aspettato che il Sole andasse via, che ti lasciasse stare con il suo bipolarismo. Poi ci si saluta, che gli altri hanno sonno. E tu sonno non hai. Vai a letto, ti metti il computer sulle gambe ed inizi a scrivere finchè è notte. Il giallo non lo sopporti più, eppure se è solo il tuo, se è solo la tua stanza, è un giallo tranquillo, è un giallo sopportabile. Finalmente notte, finalmente scrivo, di nuovo. Finalmente la follia non mi tocca. Finalmente non sono sotto esame. Finalmente la notte è mia amica, non ho bisogno del giorno, non ho bisogno del Sole.

     Finalmente notte. Ora cosa fai?
     Oh, beh, aspetto che fa giorno.

domenica 7 luglio 2013

Fischio.

       Sono da sempre stato attento ai dettagli, di ogni cosa. Quando parlo con una persona guardo ogni cosa, con piccoli sguardi innocenti, inconsapevoli e curiosi di ciò che a qualcuno sfugge. Il neo all'angolo della fronte, l'altro immerso nei peli delle sopracciglia, il naso con dei puntini a forma di triangolino, le mani piccole, la faccia tonda come una biglia, il bottone scucito, la macchia di grasso di motorino sui pantaloni, il mento a forma di culo.

       Parlando con qualcuno osservo molte cose, e se mi sta antipatico mi piace cercare quei tratti che provano indiscutibilmente il fatto che abbia in comune il 99 per cento del suo genoma con uno scimpanzè. Mentre parla, apre ritmicamente la bocca, ragiona e emette vocalizi da quella voragine dietro i denti dalla forma strana. Senza star troppo a giudicare, mi basta aver visto un paio di tratti, ed ecco, un paio di sue fotografie mentre si trova allo stato primordiale maneggiando noci di cocco e facendo cose strane con le foglie degli alberi di banana. Il tutto si svolge in poche frazioni di secondo, impercettibilmente, con il minimo sforzo, non perdo neanche il filo del discorso. Il risultato è anche piuttosto realistico, nonchè sadicamente divertente.

      Non ho un'ottima vista, dato che ho bisogno degli occhiali, ma sicuramente ho un gran senso dell'udito. Funziona più o meno come con i dettagli visivi, io cammino, parlo, vivo, e nel frattempo molte cose mi entrano nelle orecchie. Riesco a sentire cellulari che vibrano nelle borse, orologi che ticchettano, non ho neanche bisogno di concentrarmi, è una cosa che mi risulta molto naturale. Sorprendo me stesso ogni giorno di più, qualche volta per farlo mi ci metto davvero d'impegno, ed anche questo è abbastanza divertente. E' bello poter ascoltare, fermarsi un momento, concentrarsi un po' e sentire il mondo scorrere nei piccoli suoni dimenticati dal resto del mondo. Il garage che si apre, l'uccellino che cinguetta, una risata fragorosa, una porta che sbatte, gente che grida in dialetto, Marta che saluta tutti e va a lezione.

      Uno strano fischio fisso e continuo. Sbatto la mano al muro e lascio che la luce della plafoniera mi bruci la retina. Poggio i piedi, scivolano sui granelli di polvere del pavimento che non pulisco da circa una settimana. Osservo l'ammasso granulare fluido di cose colorate pendenti, butto le mani sugli occhiali, incurante di insozzare le lenti con le dita, ed ecco la sedia girevole che non gira più per il carico di vestiti granulari fluidi. La notte chiudo gli occhi, mi dimentico del tumore che aggredisce la sedia e lo ritrovo il mattino dopo, ingiallito dalla plafoniera perentoria. Mi chiede pietà, o forse no, forse è solo questo strano fischio fisso e continuo.

      La radiosveglia infernale emette le sette di un rosso che non ho mai sopportato, mi guarda insensibile e mi giudica. Il suo colore arriva alle mie orecchie e le fa fischiare, mi fischiano le orecchie. La porta scatta morbidamente con un suono ovattato. Le radiosveglie non giudicano, le sedie girevoli non chiedono pietà, sono solo io che di colpo non ci sento più bene. Mi aggiro in bagno con la testa in una bolla d'acqua, la fiatella secca mentre tutto è ancora più vaporoso per colpa degli occhiali sporchi. Non ci sento più e la cosa non mi piace.

      Riempio lo zaino di libri, riempio la valigia di libri e di qualche vestito, agguanto la maniglia   della valigia e sbatto la porta. Il sole secco mi sputa addosso l'estate che mi rifiuto di raccogliere, striscio via con i miei bagagli pesanti cercando di raggiungere le mura di casa. Il pullman è alle 11 ed ho avuto tempo di fare ogni cosa, seguito fedelmente dal mio nuovo amico fischiante nelle orecchie. Come se non bastasse l'esame di biologia.

       Sono le 9, il sole è alto, non c'è una nuvola, la gente va al mare ed io sono stanco. Mi faccio agitare sulle strade di mollica dura dal bus che porta alla metro, il fischio balla con l'autobus, lo sopporto con le braccia incrociate sulla valigia e il mento poggiato. Dopo una ventina di minuti di capoeira, il fischio dei freni si unisce a quello delle mie orecchie. L'autobus sbuffa e vomita fuori tutti quanti, me compreso. Mi fermo un momento solo, e il fischio continua a vegliare su di me e dentro di me. Asciugo il sudore e andiamo io e lui sulle scale della metro. Sono le 9 e 30, sono nervoso e sono stanco.

      La gente parla, i rumori affollano, non sento davvero più nulla e non capisco perchè. Mi accomodo sul sedile e mi sistemo con le braccia sulla valigia. Un gruppo di anziani allegri popola il vagone. Si parlano, ed è tutto un circolare di mugugni e colpi di tosse, accompagnati nelle mie orecchie dal fischio. "Dove?" "Ba......i!" "A che si sce..e?" "Ba...rini!" "Eh?". Sempre gli stessi versi e mugugni finchè tutti non ricevettero e compresero correttamente l'informazione. Sale il nervoso, non sento niente, non che mi interessi di loro, ma ogni rumore si infila dentro le mie orecchie sature del fischio, ogni rumore sbatteva insieme a quel maledetto fischio, senza che potessi comprendere nulla.

      Un accattone con lo zaino e le scarpe rotte chiede senza troppa insistenza. Agita la mano vuota che non fa che riempirsi d'aria per tutto il percorso. Arriva dai vecchi e uno di loro dice qualcosa. Gli altri ridono. L'accattone agita la mano, agita il dito e diventa serio. -Noi...Kosovo...nazione...-, mi rifiuto di guardare la scena e mi arrendo ai suoni che non smettono di infastidirmi. -Ahahahah!- -Nonono, noi.......zione fiera.....Kosovo....memoria......storia....- qualcuno mugugna e gli altri ridono. Il vagone intero fissa la scena, e come lo stolto guardo le dita che puntano alla Luna.

      Mi abbandono al sedile e dò un senso al biglietto che ho stampato porgendolo al controllore. Siede vicino a me, il mio insistente compagno, e non mi lascia in pace. Il pullman parte, ed improvvisamente accade qualcosa che non avrei immaginato. Il fischio inizia a piacermi. Ascolto il fischio, ed il fischio è bello. E il mondo scorre, la gente davanti parla di cose strane che finalmente riesco a non sentire. Percepisco poche parole, -...stupro...galera...che si aspetta adesso che esce di prigione?-, storie curiosissime di cui improvvisamente non mi importa niente.

     Per la prima volta, non ho intenzione di ascoltare il mondo e del mondo non mi importa nulla. Il fischio è mio amico, ed è bellissimo. Mi abbandono piano alla sua compagnia, la testa piegata, mentre il mondo cerca disperatamente di entrare dalle mie orecchie. Chiudo gli occhi e ascolto il canto insensato del mio nuovo amico, che sublimamente respinge tutto ciò che mi circonda. Storie bellissime, di un uomo che fischia, cammina e fischia. Arrivo in piazza e trovo una mia amica. Amica mia, come stai? Male, sto male, mi hanno trovato il gene della calvizie! Calvizie? Si, calvizie! Guarda come sono calva! Cavolo, meglio andar via, inizia a piovere.

     Un goccio di saliva piove dalle mie labbra sulla spalla e il Vesuvio a sinistra oltre il vetro. La faccia intorpidita, eppure qualcosa manca. Le signore davanti parlano dell'albergo con la piscina, e dietro di me un ragazzo parla della macchina che si è sfasciata. Dove sei, amico mio? -Ma cosa...?-. Ecco. Il mio nuovo amico. Il fischio è andato via, per lasciarmi in compagnia del mondo e della mia voce, chiara e tonda, finalmente ci sento bene.

     Stranamente, inizio ad odiare il mio udito. Sto sentendo di nuovo, sto sentendo tutto. Sto sentendo tutti i cazzi della signora davanti, sto sentendo il rombo del motore, il vecchio che tossisce, quello di dietro che ascolta musica house. Il mondo aveva ucciso il mio amico, ed aveva ripreso possesso del mio orecchio, lo aveva fatto mentre dormivo, in un fiume di cose di cui non mi importa nulla. 

     E' bello ascoltare, ma ogni tanto è bello anche smettere di farlo. E' bello riprendere se stessi, non ascoltare nulla se non se stessi. Abbiamo paura di questi momenti, dei momenti in cui il mondo sembra rifiutarci, dell'orrore dei momenti di solitudine. Ci aggrappiamo a qualunque appiglio pur di non sentirci soli, pur di non restare da soli. Siamo disposti a ridere con gente che non sopportiamo, a buttarci in fiumi di alcool, in posti in cui la musica è così alta da sovrastare ogni cosa.

     Ed ogni tanto accade, qualcosa dentro di noi cerca di riprendere la nostra attenzione. Il nostro io, che trattiamo così male, di cui detestiamo la compagnia, ci chiude in casa e ci costringe a stare con lui. Ma in fondo, non è male restare con se stessi. Il giorno dopo ho staccato internet. Non volevo sentire più nessuno. Ho chiuso Facebook, non ho più aperto Whatsapp, ho preso un periodo solo e soltanto per me.

     Stanco dei valzer di proteine, mi sono steso sul letto e ho cercato il mio amico. Il fischio, era tornato. Ed io l'ho abbracciato.