martedì 13 novembre 2012

Insegnanti.

   L'estate non ha scherzato nemmeno quest'anno, non ha risparmiato proprio nessuno. Nemmeno quegli stronzetti freschi freschi di liceo non ancora pronti per quello che li stava aspettando. Di quanto fossi pronto non mi importava in quel momento, quello che dovevo fare lo avevo già fatto. Ero lì giusto per ultimare le pratiche, per diventare ufficialmente la più giovane recluta del corso.

    Vestito di un sottile abito di sudore bollente e di una magliettina di cotone senza maniche, aspettavo il mio turno in silenzio. Il portalistini nero mi tagliuzzava le dita con il bordo di plastica dura, ma in quel momento non mi importava neanche di quello. Volevo solo sbrigarmi, solo sbrigarmi e prendere il treno delle sei meno un quarto, solo il treno per tornare a casa l'ultima volta e salutare per sempre la mia infanzia.

    Avevo tutto quanto con me, ma proprio in quel momento, proprio in quell'istante mi ero ricordato di un particolare che avevo proprio trascurato. Quel documento, dovevo fotocopiarlo, dovevo consegnare la fotocopia, non l'originale.

    Già lo vedevo, l'originale, sparire in qualche archivio e finire tra trent'anni nelle mani di un bambino, sotto i colpi di un pastello rosso sangue coagulato tra le mani sudate del figlio di un impiegato di quell'ufficio.

    Quella fotocopiatrice buttata nel corridoio sotto l'alito del condizionatore era troppo invitante. Non c'era nessuno a vigilare, e in fondo si trattava di un ufficio pubblico. Con la naturalezza del ladruncolo, inserisco il foglio sullo scanner e premo il bottoncino verde. La fotocopiatrice sputa fuori il foglio caldo sulle mie mani, che lo prendono con sollievo, prima di essere strappato via dalle mani tozze di un'altra persona. Un giovane, biondo, basso e grosso, dietro i suoi occhiali di osso mi biascica che le fotocopie lì non si possono fare. Le sue dita masticano il documento e lo vomitano in un cestino vuoto.

   Lo guardo con gli occhi di chi vorrebbe solo una fotocopia, solo quella fotocopia, solo un fogliettino macchiato di toner. Glielo chiedo di nuovo, senza enfasi. Lui mi guarda come se volesse, in fondo, accontentarmi, prima che qualcosa in lui gli chiudesse le palpebre e gli facesse balbettare attraverso il suo apparecchio metallico che "Non si fanno...qui...le...foto...copie.". Lo ringrazio di cuore. Mi guarda un po' spiazzato, con l'aria di chi non si aspettava una risposta del genere, poi si siede alla sua poltrona Ikea, acciambellato come un cane contento dell'osso che ha appena conquistato, ma che lo annusa dubbioso che ci sia rimasto ancora qualcosa da spolpare. Dopodichè torna a giocare al solitario su un tristissimo computer gracchiante.

    Andai, sconfitto, ad arricchire di 10 centesimi le casse di una legatoria, per poi tornare all'ufficio con la fotocopia. Lo ritrovo che ha quasi finito il solitario. Mi guarda, lo saluto con un cenno e gli mostro la fotocopia. Mi guarda quasi spaventato, per poi ritrovare quel briciolo di autorità che gli conferiva la poltrona Ikea e dirmi che "Non si fanno le fotocopie qui.".

   Le manine del bambino coloravano la vecchia ricevuta, con il pastello tra le mani sudate. La sua fantasia gli dettava un sole spigoloso sopra un umanoide che poggia i piedi sul nulla, alto come un albero, vicino ad una casa alta come l'umanoide, anch'essa poggiata sul nulla.

    Uffici pubblici. Università pubblica. Tutto così affollato, tanto affollato da farmi ritrovare ogni giorno alle 7 e 25 di fronte alla porta dell'aula in cui le lezioni iniziano alle 9. Tutto per trovare un posto in seconda fila e seguire la lezione su un sedile duro di compensato verniciato piuttosto che sulle scale foderate di plastica dal colore degli m & m's scaduti. A me non dispiace affatto alzarmi alle 6, uscire alle 7 meno 5, fare colazione al bar e farmi un quarto d'ora di strada a piedi per arrivare in facoltà prima di tutti. Arrivano anche gli altri dopo, ma quei pochi minuti di solitudine sonnecchiosa, seduto su una panchina di metallo ad ascoltare musica e a leggere il quotidiano gratuito sotto il venticello fresco del mattino, creano ogni giorno un piccolo miracolo impareggiabile.

    L'attesa è presto premiata. Una donnina cannone con un pastrano viola dondola verso le 7 e 40 lungo i corridoi, aprendo con le chiavi tintinnanti prima un'aula e poi l'altra. Le matricole sono sempre le più mattiniere, le matricole sono pronte a tutto, tutto per la gavetta. Al pastrano viola questo fatto non piace, e agita il dito facendo domande autoritarie a destra e a sinistra mentre apre la porta dell'aula. Non si deve venire così presto, dice, all'università, perchè l'università non apre mai presto. L'università apre alle 9, non apre alle 7 e 40, e da domani, da domani aprirà alle 9, alla faccia nostra e alla faccia vostra, da domani apre alle 9. E se non lo avete capito, domani ce lo farà vedere, il pastrano viola, come apre alle 9, l'università. 

   Non aveva capito, evidentemente, che non basta questo a scoraggiare una matricola. E il mattino dopo, sotto gli stessi occhi del giorno prima, il pastrano viola apre l'aula alle 7 e 40. "Tanto il problema dell'affollamento non lo risolviamo comunque.". Va via, con la testa alta e lo sguardo fisso di chi ha perso, di chi voleva far paura ma non ce l'ha fatta, di chi non può fare ciò che vuole, anche se vorrebbe.

    Il disegnino è quasi finito. Sulla mano gonfia dell'umanoide è poggiato un uccello di cartone. Il suo sorriso isterico e i suoi occhi satanici spaccano la retina. Tutto il rosso della rappresentazione fa sentire più caldo di quanto Dio non ne stia già mandando. Ultimato il progetto, il piccolo sbatte il pastello, afferra il disegno e corre a farlo vedere a tutti nell'altra stanza. Lo regala alle mani della mamma, che lo accolgono con le unghie smaltate di rosso. L'orgoglio per il piccolo è insuperabile, viaggia di bocca in bocca, di occhio in occhio, il prodigio del bambino stupisce proprio tutti.

   Le mani applaudono senza più contegno. Il piccolo Matisse si gode il momento, e quando tutte le mani sono ferme, nel brevissimo istante di silenzio, lo zio chiede al bambino cosa vuole fare da grande. Il bambino dondola sui talloni e sghignazza guardandosi in giro. Alza la testa e annuncia al mondo che da grande vuole "fottere tutti".

    I parenti ridono sorpresi. Ridono tutti, ride anche Matisse. Ride il nonno, anche se non ha più denti per ridere. Ride la mamma, ride il papà, "ma quanto sei sciocchino!", gli dicono, mentre sgranocchia una brioscina.

   Anche la maestra, un giorno, tira fuori l'idea di chiedere ai piccoli cosa vogliono fare da grandi. E il nostro Matisse, ridendo, scrive del suo progetto di fottere tutti. La maestra non ride affatto e convoca i genitori. Presenta loro il compitino e gli chiede spiegazioni. Il papà cambiava colore e la mamma si spaventava molto. Il papà iniziava già a gridare, a imprecare, a bestemmiare, rompendo il silenzio della scuola. I bambini sbirciano, sbircia anche Matisse che mostra ai suoi amici com'è forte il suo papà, che parla di una cosa strana, di una "denuncia", di una "querela", perchè la maestra non sa mica chi è, il papà di Matisse. "Ma come si permette lei? Come si permette di insegnarmi come fare il papà? Quelli come lei dovrebbero raccogliere pomodori!"

   Tutta colpa degli insegnanti: dovrebbero licenziarli tutti.