Sin da bambino, il futuro mi ha sempre
affascinato. Mi divertivo qualche volta a pensare a ciò che sarei potuto essere
in un futuro non troppo lontano, a quanto di me sarebbe potuto cambiare e se,
una volta che quel futuro sarebbe divenuto presente, mi sarei ricordato di
quello che avevo immaginato prima. Così, nel conservare le cose, alcune cose in
particolare, mi divertivo a lasciare tracce di me al me stesso del futuro.
Erano piccoli segni di riconoscimento su alcuni degli oggetti che avrei
conservato gelosamente: quaderni, libri, peluche, dizionari, carte da gioco,
qualunque cosa che, se in un futuro avessi ripreso con mano, mi avrebbe fatto
ricordare momenti preziosi del periodo in cui l’avevo lasciata. Era come un
gioco, ed in fondo lo è anche adesso.
Quando si è piccoli non si riesce ad
immaginare la vera dimensione di un addio. Lo si percepisce sempre come un “a
più tardi”, e questo piccolo gioco con me stesso me lo ha fatto capire. Ogni
volta che ritrovavo quelle tracce di me stesso, sorridevo pensando a quanto
potesse cambiare tra un segno e l’altro, quante speranze potessero diventare
realtà e quante altre restare solo sogni di carta, ma ogni periodo restava
sempre una sorta di breve intermezzo tra un ricordo e l’altro, mai un baratro
troppo grande. Tutto questo può anche funzionare, almeno finchè non si scopre
l’addio.
Mia madre continuava a ricordarmi che
avrei dovuto fare pulizie sul serio nella mia stanza. Ormai i libri del liceo
sono inservibili, è giusto lasciare spazio ad altro. Così, arriva il momento in
cui si raccoglie tutto ciò che si era poggiato, per poterlo conservare una
volta per tutte. Arriva l’addio.
Il pavimento era cosparso dei miei
diciotto anni in cinquemila pezzi di un puzzle di cielo azzurro. Con la
freddezza di un boia, bisogna scegliere cosa tenere e cosa buttare via per
sempre. C’è sempre tempo per un sorriso,
però. Gli appunti di chimica, di italiano, di latino, i libri scarabocchiati, i
libri completamente intatti, gli stronzetti sorridenti dei libri di inglese con
i baffi e le borchie scarabocchiate con la penna, il disegno di un pene con
tanto di scroto incredibilmente realistico frutto della disperazione sulla
mappa concettuale di Aristotele, i quaderni di matematica mai del tutto finiti,
i quaderni di religione magri a causa dei troppi fogli strappati dalla metà,
senza dubbio mi sono divertito a trovare tutto questo. Finchè non toccai quel
quaderno di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza. Quel quaderno che
non doveva essere letto, quei pensieri che avevo cacciato molto tempo fa,
quello che non avrei mai voluto trovare mai prima dei capelli bianchi.
Non si dimentica il passato, ma ci sono
alcune cose che è meglio non ricordare troppo vivamente. Il passato con cui si
ha chiuso molto tempo prima, il passato che non si vuole più incontrare, viene
fuori così, in un pigro giovedì pomeriggio, tra una risata e l’altra. Non
riuscivo a smettere di sfogliarlo, brivido dopo brivido, era più forte di me.
Finchè non l’ho strappato in un solo colpo, senza fiatare. E’ un tantino
difficile strappare un quaderno, ma la forza di lasciarsi qualcosa alle spalle
e per sempre, a volte ti fa fare cose che non ti credevi capace di fare.
Avevo voglia di un bel fuoco. Il musetto
dello scoiattolo sulla copertina del quaderno strappato sfrigolava e spariva in
una nuvoletta pungente di diossina, i fogli ancora uniti si aprivano in
briciole di cenere, alcuni di quelli staccati facevano qualche molle capriola, finalmente
un po’ di sollievo. Avevo davvero affrontato quel resto andato di me, salutato
un passato che non volevo più incontrare. “Mai più”, le uniche parole che il
fuoco mi stampava sugli occhi, mentre una goccia di sudore scendeva sulla
tempia.
Finito il fuoco, rompevo la cenere con la
pinza del camino, per sentirne meglio l’odore, mi è sempre piaciuto. Eppure non
mi sentivo troppo felice. Mi sentivo un po’ perso, un po’ più vuoto.
Finisci per affezionarti più facilmente a
quello che odi rispetto a quello che ami. Finisci col sentirti tranquillo
pensando a quello che sai essere il tuo nemico, la cosa contro cui scagliarti
in ogni momento, con una battuta acida o un pensiero cattivo. Abbiamo un
costante bisogno di nemici, in qualunque periodo della nostra vita, abbiamo un
costante bisogno di qualcosa da combattere. Un bel gomitolo di fili da
sbrogliare non troppo in fretta, concentrando gli sforzi mentre si immagina il
momento in cui quel gomitolo non ci darà più alcun problema. Ci sforziamo,
pensando al momento di quell’addio come ad un momento felice, ma in fondo non è
mai un momento felice.
Da un nemico si passa ad un altro,
sconfiggendo quello che si era ormai imparato a conoscere, quello con cui
scontrarsi dava più forza nel corso della giornata, semplicemente perché, dopo
tanto tempo, erano chiari i luoghi dove colpirlo più forte. Da un nemico si
passa ad un altro, magari più forte, ma sicuramente diverso da prima. Non si
lascia un nemico senza avergli voluto bene.
Non si lascia un posto in cui ci si sente
stretti senza provare almeno un po’ di dispiacere. Terminare ciò che è bello è
sempre più facile di terminare ciò che è brutto. Lasciare il proprio letto, il
proprio primo puzzle finalmente completo, il papà fin troppo paziente, la mamma
che è sempre la mamma, si può lasciare questo con un sorriso.
In silenzio, con il cielo della notte
sporco di uno spruzzo del sole, in silenzio ho abbandonato il mio nemico.
In silenzio ho pianto mentre l’alba mi rideva
in faccia, ingozzandosi degli ultimi brandelli ancora freschi della notte.
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