lunedì 8 ottobre 2012

Nemici.


     Sin da bambino, il futuro mi ha sempre affascinato. Mi divertivo qualche volta a pensare a ciò che sarei potuto essere in un futuro non troppo lontano, a quanto di me sarebbe potuto cambiare e se, una volta che quel futuro sarebbe divenuto presente, mi sarei ricordato di quello che avevo immaginato prima. Così, nel conservare le cose, alcune cose in particolare, mi divertivo a lasciare tracce di me al me stesso del futuro. Erano piccoli segni di riconoscimento su alcuni degli oggetti che avrei conservato gelosamente: quaderni, libri, peluche, dizionari, carte da gioco, qualunque cosa che, se in un futuro avessi ripreso con mano, mi avrebbe fatto ricordare momenti preziosi del periodo in cui l’avevo lasciata. Era come un gioco, ed in fondo lo è anche adesso.

     Quando si è piccoli non si riesce ad immaginare la vera dimensione di un addio. Lo si percepisce sempre come un “a più tardi”, e questo piccolo gioco con me stesso me lo ha fatto capire. Ogni volta che ritrovavo quelle tracce di me stesso, sorridevo pensando a quanto potesse cambiare tra un segno e l’altro, quante speranze potessero diventare realtà e quante altre restare solo sogni di carta, ma ogni periodo restava sempre una sorta di breve intermezzo tra un ricordo e l’altro, mai un baratro troppo grande. Tutto questo può anche funzionare, almeno finchè non si scopre l’addio.

     Mia madre continuava a ricordarmi che avrei dovuto fare pulizie sul serio nella mia stanza. Ormai i libri del liceo sono inservibili, è giusto lasciare spazio ad altro. Così, arriva il momento in cui si raccoglie tutto ciò che si era poggiato, per poterlo conservare una volta per tutte. Arriva l’addio.

     Il pavimento era cosparso dei miei diciotto anni in cinquemila pezzi di un puzzle di cielo azzurro. Con la freddezza di un boia, bisogna scegliere cosa tenere e cosa buttare via per sempre.  C’è sempre tempo per un sorriso, però. Gli appunti di chimica, di italiano, di latino, i libri scarabocchiati, i libri completamente intatti, gli stronzetti sorridenti dei libri di inglese con i baffi e le borchie scarabocchiate con la penna, il disegno di un pene con tanto di scroto incredibilmente realistico frutto della disperazione sulla mappa concettuale di Aristotele, i quaderni di matematica mai del tutto finiti, i quaderni di religione magri a causa dei troppi fogli strappati dalla metà, senza dubbio mi sono divertito a trovare tutto questo. Finchè non toccai quel quaderno di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza. Quel quaderno che non doveva essere letto, quei pensieri che avevo cacciato molto tempo fa, quello che non avrei mai voluto trovare mai prima dei capelli bianchi.

     Non si dimentica il passato, ma ci sono alcune cose che è meglio non ricordare troppo vivamente. Il passato con cui si ha chiuso molto tempo prima, il passato che non si vuole più incontrare, viene fuori così, in un pigro giovedì pomeriggio, tra una risata e l’altra. Non riuscivo a smettere di sfogliarlo, brivido dopo brivido, era più forte di me. Finchè non l’ho strappato in un solo colpo, senza fiatare. E’ un tantino difficile strappare un quaderno, ma la forza di lasciarsi qualcosa alle spalle e per sempre, a volte ti fa fare cose che non ti credevi capace di fare.

     Avevo voglia di un bel fuoco. Il musetto dello scoiattolo sulla copertina del quaderno strappato sfrigolava e spariva in una nuvoletta pungente di diossina, i fogli ancora uniti si aprivano in briciole di cenere, alcuni di quelli staccati facevano qualche molle capriola, finalmente un po’ di sollievo. Avevo davvero affrontato quel resto andato di me, salutato un passato che non volevo più incontrare. “Mai più”, le uniche parole che il fuoco mi stampava sugli occhi, mentre una goccia di sudore scendeva sulla tempia.

     Finito il fuoco, rompevo la cenere con la pinza del camino, per sentirne meglio l’odore, mi è sempre piaciuto. Eppure non mi sentivo troppo felice. Mi sentivo un po’ perso, un po’ più vuoto.

     Finisci per affezionarti più facilmente a quello che odi rispetto a quello che ami. Finisci col sentirti tranquillo pensando a quello che sai essere il tuo nemico, la cosa contro cui scagliarti in ogni momento, con una battuta acida o un pensiero cattivo. Abbiamo un costante bisogno di nemici, in qualunque periodo della nostra vita, abbiamo un costante bisogno di qualcosa da combattere. Un bel gomitolo di fili da sbrogliare non troppo in fretta, concentrando gli sforzi mentre si immagina il momento in cui quel gomitolo non ci darà più alcun problema. Ci sforziamo, pensando al momento di quell’addio come ad un momento felice, ma in fondo non è mai un momento felice.

     Da un nemico si passa ad un altro, sconfiggendo quello che si era ormai imparato a conoscere, quello con cui scontrarsi dava più forza nel corso della giornata, semplicemente perché, dopo tanto tempo, erano chiari i luoghi dove colpirlo più forte. Da un nemico si passa ad un altro, magari più forte, ma sicuramente diverso da prima. Non si lascia un nemico senza avergli voluto bene.

     Non si lascia un posto in cui ci si sente stretti senza provare almeno un po’ di dispiacere. Terminare ciò che è bello è sempre più facile di terminare ciò che è brutto. Lasciare il proprio letto, il proprio primo puzzle finalmente completo, il papà fin troppo paziente, la mamma che è sempre la mamma, si può lasciare questo con un sorriso.

     In silenzio, con il cielo della notte sporco di uno spruzzo del sole, in silenzio ho abbandonato il mio nemico.

     In silenzio ho pianto mentre l’alba mi rideva in faccia, ingozzandosi degli ultimi brandelli ancora freschi della notte.

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