Ci sono posti in cui ci si sente a casa. Non
si tratta di casa vera e propria, ma di posti che ci danno lo stesso calore di
casa, la stessa accoglienza, ristoro, bei ricordi, posti sicuri in cui
isolarsi, come se si fosse a casa propria. Sono posti che dispiace, dispiace
davvero abbandonare. I tedeschi li chiamano heimat, o qualcosa del genere.
Nel punto più alto di una pianura ampia
molti chilometri, c’è un paesino. Ci ho trascorso la maggior parte della mia
infanzia. Un posto curioso, in cui il tempo non sembra mai rovinare nulla.
Tutto scorre normalmente, secondo un ritmo atavico, un lento orologio di legno
caricato una volta sola, che da allora non ha bisogno più di manutenzione.
Tutti conoscono tutti, tutti sanno tutto di tutti, in un modo quanto mai
spassoso.
Le vecchine, la sera, si mettono tutte lì,
nei vialetti, a giudicare i fatti del giorno, le persone, le figlie delle
persone. Unirsi a loro, anche solo per ascoltare, è uno spettacolo unico.
Sentire il dialetto stretto, i soprannomi strani che si tramandano di padre in
figlio, nati dai fatti più assurdi capitati ai nonni dei nonni di persone ancora
vive. Di alcuni, l’origine del soprannome è nota, di altri non si ricorda
neanche più. Era divertente (e lo è tuttora) giocare con questi soprannomi,
sentirne il più possibile, capire a chi si riferiscono, così anche solo
camminare e vedere ogni persona nel paese era come camminare in una festa in
maschera, fatta di persone più o meno ignare di indossare una certa maschera
grottesca. Il signor verza, il signor scarafaggio, il signor brufoloinculo, il
signor sceriffo, erano tutti lì, lo sono sempre stati.
Il vicino di casa di mio zio, che abita lì,
e la sua strana famiglia, anche loro hanno le loro maschere. Il vicino è un
tipo magro e alto, fa il pescatore, fuma e bestemmia sempre. Sua moglie, un po’
grossa, lavoricchia di qua e di là, con quello che trova e il figlio piccolo va
in giro dappertutto con la sua bici. Al matrimonio della sorella di lui,
seppure un po’ povero, il vicino ci teneva molto a far bella figura, così
decise di improvvisare una tintura per capelli per colorare la sua solita
chioma grigia. Era un po’ inesperto, per cui il suo lavoro non riuscì come
previsto. I suoi capelli restarono grigi, in compenso colorò di biondo platino
una vistosa parte della sua frangia. Essendo naturalmente spettinato, sembrava
un incrocio tra il chitarrista dei Green Day e Cristiano Malgioglio in una
giornata storta. Uscì di casa e andò al matrimonio, stette tutto il tempo con
la mano sulla fronte e il viso rosso per la vergogna. Il risultato finale non
fu né il chitarrista dei Green Day né Malgioglio. Sembrava semplicemente un
ubriaco in giacca e cravatta. Una maschera perfetta. Da quel giorno, tutte le
volte che lo incontro lo ricordo in quel momento e lo saluto con un sorriso,
con la stessa empatia che ho verso Paperino.
Quella continua festa, quel passeggiare,
riconoscere, salutare, avere il piacere di essere riconosciuti e continuare
ognuno per i propri affari, era quello il sentirsi a casa.
Anno
dopo anno, l’orologio continuava a scorrere, con qualche vecchina in meno,
qualche scandalo in più, qualche persona che prende e va via, qualche persona
che resta. Impercettibilmente, il ticchettio dell’ingranaggio continuava a fare
il suo corso, verso un continuo flebile spegnersi. Nessuno più resta nel paese,
le generazioni passano, e i figli degli anziani si seguono uno dietro l’altro,
pronti e decisi ad andare altrove, giustamente. Grandi speranze, troppo grandi
da essere accontentate da una festa in maschera.
Gli scandali diventano sempre meno
eclatanti, anche perché non c’è più nessuno che ne parla. Le sere calde
d’estate non sono più illuminate dalle piccole giurie da vicolo, che si
riunivano sgranocchiando qualche pistacchio preso alla fiera del giorno prima,
fatto avanzare apposta per la serata. Mute testimoni sono solo le mura del
paese vecchio e della chiesa madre, dodici anni fa luogo di riunione generale,
attualmente inagibile e diventata un ingombrante spartitraffico.
Accompagno a farsi i capelli lo zio che
abita lì, in un giorno con il sole. Incontriamo un suo amico, che ha una
barchetta al porto, così come mio zio. L’amico dello zio è un signore un po’
attempato pieno di tatuaggi strani dappertutto, tra cui quello di un bella donna
sulla schiena. Coltiva pomodori e zucchine nell’orticello e, a tempo perso, va
a pesca con lo zio. Qualche anno fa mostrava una barba folta e un baffone da
ammaestratore del circo. Lo ritrovo dopo due anni, rasato, più stanco del
solito, come un pagliaccio struccato dopo lo spettacolo.
-Ho messo il motore nuovo alla barca,
della…della…gliamàchia, mi pare che si chiama così.-, dice allo zio, che non
corregge l’amico e dice che è un motore buono. Anche l’orto gli va bene,
quest’anno sembra siano venuti fuori dei pomodori buoni. E poi silenzio.
Eravamo in tre, in piedi, a guardare il sacro spartitraffico, senza più niente
da dire. Il cielo ride, al bar sono buttati quattro vecchi come cani randagi,
attorno alla fontana con il fascio littorio che funziona tuttora, ma di cui
nessuno più si serve. Passa il vecchio tuttofare con la sua orrenda Tipo color
verde palude. Arriva all’incrocio con la terza, saluta timidamente tutti con un
colpo di clacson, mette la freccia a destra e gira a sinistra. Nessuno lo
corregge, nessuno sembra essersene accorto. Il silenzio continua, finchè lo zio
non dice di voler andare a farsi i capelli. Saluto l’amico dello zio e lo
seguo.
Il barbiere è allievo di un altro barbiere
del paese. E’ giovanissimo, andavo sempre da lui quando ero piccolo. Un tipo
dalla battuta pronta, non si poteva non ridere insieme a lui. Non andavo a
trovarlo da almeno sei anni. Delle sue solite camicie a quadri non restava
molto. I capelli con la riga in mezzo, una polo a righe e l’aria di un signore
avanti con gli anni. Mi saluta con un sorriso. Non dice nulla, lavora e basta.
Nessuno dice nulla, il silenzio è padrone.
La festa sembra davvero finita. Tutto non
esprime più vitalità, ma una lenta e continua stanchezza. Giorno dopo giorno,
ognuno si corica un po’ di più sul fianco. Il vicino dello zio, ogni giorno,
più che bonario sembra incazzato. Suo figlio gira così al largo che non lo vedo
mai. La moglie, sempre gentile, esce un po’ meno spesso.
Lo so già. Questa sarà l’ultima volta in
cui vedrò quella casa in quello stato. La prossima volta sarà ancora più
silenziosa, quella casa. Il vicino sarà, a ragione, ancora più incazzato con il
sistema che lo ha voluto povero. Il barbiere inizierà a cacciare capelli
bianchi. La pista da bocce sarà ancora più piena di cacche di cane che nessuno
ormai toglie più via. Di quella festa continua non resterà che qualche lustrino
per terra, qualche maschera caduta per il sonno, qualche maschera struccata e stanca
di una festa durata così tanto, qualche altra ubriaca di tutto questo.
L’orologio resterà lì, così come la chiesa
spartitraffico, ad aspettare ancora. Resterà solo un lungo sonno, fatto di
giorni senza più alcun nome, finchè un’altra festa non capiterà nello stesso
luogo, finchè non diventerà casa per qualcun altro.
E della vecchia festa non resterà più
nulla.
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