domenica 13 gennaio 2013

Io.

    Di lui si dicevano cose curiose. Una volta, dicevano, aveva visto una mosca poggiarsi sul banco vicino alla sua mano, e con un gesto fulmineo, dicevano, l'aveva presa e se l'era mangiata. Si mangiava anche le unghie, sicuramente più spesso delle mosche, ma era un figo. Un figo che mi stimava, e lo stimavo anche io.

    Quasi di comune accordo, ogni giorno io e lui facevamo a gara a chi se la tirasse di più, campando in aria le storie più assurde, sotto il mai verbalizzato accordo di credere incondizionatamente ad ogni storia che ci raccontavamo, seppure fosse un'evidentissima e colossale stronzata. Mi aveva raccontato, un giorno, che a casa sua aveva un sistema di allarme ultra tecnologico, con i sensori di movimento, di calore e anche i sensori speciali, quelli che sono sensibili ai respiri e alle scorregge.

    Per rispondere degnamente, gli raccontai dei tre pitbull affamati che gironzolavano nel fossato profondo 7 metri scavato nel pavimento del corridoio del mio appartamento al terzo piano. Quella volta, però, aveva deciso di venire meno all'accordo. Iniziò a chiedermi particolari, cosa gli dessi da mangiare, ai pitbull. La carne, ai pitbull piace la carne, però non troppa, altrimenti non sarebbero stati aggressivi. Come facevo ad arrivare in cucina a bere un sorso d'acqua se mi fossi svegliato di notte con la gola secca? Avevo costruito anche un sistema di assi di legno, per evitare di cadere nel fossato, anche se era più semplice portarsi la bottiglia vicino al letto. No, non avevo fatto tutto da solo, mi aveva aiutato anche papà. Finì le sue domande, senza dire niente altro, con la faccia di chi aveva qualche dubbio su quello che avevo raccontato. Da quel giorno non abbiamo avuto più nulla da raccontarci.

    Per un bambino è naturale inventare le storie, dire le bugie, giocare a far finta di crederci, abbandonarsi all'illusione che quello che sta sentendo è verissimo, e rispondere con altrettante storie campate in aria, respirando l'odore dei volti ammirati e creduloni dei propri compagni di giochi, il potere di essere creduti in tutto ciò che si dice.

    Si scopre il peso, la massa della personalità. Si scopre la possibilità di potersi chiamare in causa, di imporsi, basta inserirsi in un discorso, iniziarlo con la parola "Io" e inventare una storia abbastanza interessante per attirare l'attenzione altrui. Dopo una scoperta del genere, tutto il mondo diventa abbastanza piccolo per poterlo coprire con un'ombra sola.    

    Ci si ritrova in gruppo, sempre allo stesso modo, anno dopo anno, ognuno pronto ad aspettare il proprio turno. Si sta in silenzio, si ascolta parlare l'altro pensando "Ma quando finisce, quando tocca a me?", si aspetta il frammento di silenzio tra un discorso e l'altro per iniziare il proprio discorso con "Io", e farcire il resto di ogni cosa di cui si può farcire un discorso. Un'abitudine a cui si prende facilmente gusto.

    La sera di qualche giorno dopo Natale, mi sono visto con persone che non vedevo da tempo. Ogni volta è sempre bello rivedersi, soprattutto con chi si ha condiviso qualche anno della propria vita. Non tutti potranno andarti a genio, ma nel grande gruppo resisti per quelli a cui tieni davvero, come si è sempre fatto, come fanno tutti.

   Tra un racconto e l'altro, si ride e si scherza, con risate più o meno sguaiate, a cui mi lascio volentieri andare qualche volta. Quella piazza di solito si riempie poco, non solo perchè è molto grande, ma anche perchè, tradizionalmente, oltre ad essere un luogo storico, è un posto perfetto per fornicare. Ci si siede con la propria metà sugli scalini della chiesa e ci si scambia effusioni profane sotto l'occhio addormentato del palazzo del vescovo. Il palazzo pieno di preti, di suore, frati e novizi, resta immobile nei suoi principi, e non può dire nulla ormai. Il palazzo ha già fatto i suoi tempi, li lascia fare.

   E' bello come un ragazzo, per farsi bello agli occhi di una ragazza, si mostri nella sua forza unica e insuperabile, circondato dai suoi amici, di solito due o tre, che circondano il suo Io e gli puliscono la strada con i pantaloni consumati che foderano i due terzi delle suole delle loro scarpe, ridendo ad ogni stronzata che dice. Un simpatico teatrino che si ripete ogni volta, di cui ogni volta la ragazza finge di stupirsi. Tre sagome uscite da un film di De Sica che ripetono le stesse battute e una scimmietta che ride come una iena, indecisa se entrare o meno nella strana compagnia. Tanto alla fine si ritorna al palazzo del vescovo, in nome del sessantotto, e pure del sessantanove.

   Quella sera, il mio gruppo aveva interrotto una di queste compagnie, proprio al palazzo del vescovo. Stasera si recita a braccio, e si prende spunto da ogni cosa, anche da un gruppetto animato riunito in una rimpatriata. Si ride, si scherza, si gioca, si fa i coglioni tutti insieme, come nelle migliori assemblee di classe degli ultimi quindici anni. Si abbandona ogni maschera, ed ogni parola sprizza felicità, ogni risata urla al mondo la sincerità di un "Sono contento di rivederti."

  Il capocomico guarda sbigottito quelli che hanno osato uscire fuori dal loro copione, quelli sgarbati senza contegno che si lasciano andare alle risate sguaiate fuori da una pizzeria di paese, addirittura in mezzo alla strada. Raccoglie ogni pezzo del suo Io e dopo un respiro sbotta: "Cosa diavolo state facendo?".

   Lorsignori sono persone perbene, mai si lascerebbero andare a certe cose fuori da una pizzeria di paese, in mezzo alla strada, che si farebbe brutta figura, ci si prenderebbe per coglioni. Indicano e sghignazzano, e anche lei ride. Battono i loro piedi per terra, elemosinando attenzione per uno scontro personale, per dimostrare la loro forza e prendersela con il primo che passa.

   Sono tutti troppo impegnati, però, troppo felici per pensare a loro, per ascoltare altri Io, e il capocomico, ferito nell'orgoglio, si alza e fa un cenno agli altri, per cambiare zona. Abbraccia lei, per proteggerla dal focolaio di follia generalizzata, e con un colpo di coda sentenzia: "Siete proprio dei froci.", anche se nel mio gruppo c'erano solo ragazze e l'unico ragazzo ero io, che omosessuale non lo sono nemmeno.

   I quattro Io si trascinano via, contenti di aver vinto il loro premio giornaliero, di aver difeso la loro integrità e la loro normalità. Un vero Io non si lascia mai andare, un vero Io, quando è triste e vede gli altri felici, disprezza la loro felicità e la marchia come follia. Un vero Io non lascia mai vedere ciò che prova davvero, vive di conquista, circonda gli altri abbagliati da lui e  decide cosa è giusto e cosa è sbagliato. Gli altri concordano, gli altri applaudono e seguono il primo, cercano la sua approvazione. L'Io forte illumina gli altri, che vorrebbero diventare come lui, e se provano a sfidarlo sono sconfitti dalla sua forza travolgente.

   Tanto travolgente da convincerli che un pezzo di oro sia un pezzo di merda.

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